Padova story

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    1966-1967: il piccolo Padova di Humberto Rosa sfiora il trionfo in Coppa Italia
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    08.09.2014 10:19 di Alessandro Vinci articolo letto 68 volte
    Gol di Amarildo. E' offside?
    Gol di Amarildo. E' offside?
    Con l'inizio del campionato, torna il consueto appuntamento settimanale con la nostra rubrica storica "Lunedì Amarcord".



    14 giugno 1967. Stadio Olimpico di Roma. E' in programma la finale di Coppa Italia. Pronto a scendere sul terreno di gioco, c'è il Milan di Arturo “Sandokan” Silvestri, una squadra che poteva annoverare tra le sue fila campioni del calibro di Schnellinger, Trapattoni, Rivera, Lodetti e Amarildo, oltre agli assenti Rosato e Sormani, solo per citarne alcuni. L'avversario? Una compagine di Serie B, sulla carta tecnicamente lontana anni luce dai rossoneri, che si era però rivelata la grande sorpresa della competizione, avendo conquistato la finale dopo aver superato l'agguerrita concorrenza di squadre ben più attrezzate come Napoli ed Inter. E' il piccolo grande Padova dell'ex panzer Humberto Rosa, che quattro giorni più tardi concluderà il campionato cadetto con un mediocre sesto posto finale, a più cinque punti dalla zona retrocessione ed a meno dodici dalla seconda posizione, l'ultima valida per la promozione in Serie A, conquistata da Sampdoria e Varese. Ora però c'è la possibilità di entrare nella storia del calcio italiano, nella speranza di replicare al successo del Napoli 1961-1962, prima compagine di Serie B ad aggiudicarsi la coccarda tricolore. Ci aveva provato anche il Catanzaro, la stagione precedente, ma nulla aveva potuto in finale contro la Fiorentina di Hamrin e De Sisti. La storia biancoscudata nella Coppa Italia edizione 1966-1967 inizia il 4 settembre 1966. Avversario del primo turno è il Venezia, all'epoca militante in massima serie. Sembra già il capolinea per i biancoscudati. Sembra, appunto. La squadra che scende in campo all'Appiani per il primo impegno ufficiale della stagione è ricca di volti nuovi: da Gatti a Morelli, da Vigni a Fraschini, che vanno ad aggiungersi alla già affiatata ossatura formata dai vari Barbolini, Cervato, Sereni e Bigon, giovane promessa del calcio padovano. Ed è proprio l'enfant prodige biancoscudato (che a fine stagione risulterà capocannoniere della squadra con un totale di tredici marcature e verrà acquistato dal Napoli) ad aprire le marcature al 56', facendo passare in vantaggio i suoi nonostante i pronostici della vigilia. Sfortunatamente però, ad un quarto d'ora dal termine, arriva puntuale il pareggio dei lagunari, firmato Marcello Neri, a fissare il punteggio sull'1 a 1, risultato che si protrarrà sino al termine dei novanta minuti regolamentari. Si va dunque ai supplementari, che vedranno il Padova conquistare il passaggio del turno grazie ad un rigore trasformato dal neoarrivato Fraschini al 112'. Avversario nel secondo turno, in programma tre mesi più tardi, il Palermo, squadra di Serie B. Teatro della sfida, di nuovo l'Appiani. In campionato, due settimane prima, alla Favorita, gli uomini di Rosa vennero sconfitti dai rosanero per 2 a 0. Ora però si gioca nella fossa dei leoni. E' tutta un'altra storia, ed i siciliani lo capiscono ben presto concludendo la prima frazione in doppio svantaggio a causa della doppietta di Italo Carminati. Nel secondo tempo, però, il Padova si inceppa e subisce la rimonta rosanero in virtù della fulminea doppietta di Bercellino, che pareggia i conti tra il 71' ed il 73'. Anche la seconda gara di Coppa Italia sembra dunque destinata a protrarsi ai tempi supplementari quando, a due minuti dal termine, Barbolini trova l'insperata rete del 3 a 2 facendo esplodere di gioia i tifosi presenti all'Appiani. Dodici giorni più tardi, è già tempo di ottavi di finale, sempre all'Appiani, stavolta contro un Varese lanciatissimo verso la promozione in Serie A. Un'altra gara impegnativa per gli uomini di Rosa, reduci da un pesante 3 a 0 subìto tre giorni prima in quel di Reggio Calabria. Fortunatamente però, nell'occasione, Bruno Arcari, tecnico dei lombardi, sceglie di applicare un ampio turnover, facendo accomodare in panchina gran parte dei titolari, tra i quali spicca innanzitutto un giovane astro nascente del calcio italiano: il diciottenne Pietruzzo Anastasi. Risultato? Facile successo biancoscudato per 3 a 0. Le reti, tutte nella prima metà del primo tempo: a sbloccare le marcature in avvio di gara ci pensa Novelli, a mettere in ghiaccio la partita Bigon, autore di una doppietta tra il 14' ed il 22'. Il sogno può continuare per i biancoscudati, che ai quarti di finale, il 4 aprile, se la dovranno vedere con l'attrezzatissimo Napoli di Altafini e Sivori (che però non scenderà in campo contro il Padova), allenato dal petisso Pesaola. All'Appiani la gara si rivela più equilibrata del previsto ed primo tempo si conclude sullo 0 a 0. Al 6' della ripresa, ecco poi il colpo di scena: Padova in vantaggio con Morelli. I partenopei però non ci stanno e spingono sull'acceleratore, trovando il pari un quarto d'ora più tardi con Altafini. E' ancora pareggio. E' ancora extra time. Ed è ancora lieto fine: all'ultimo respiro, al 119', Quintavalle trova il gol del 2 a 1. Il Padova è in semifinale, tra le grandi del calcio italiano. Avversario di turno, il 7 giugno all'Appiani, è la leggendaria Inter di Helenio Herrera, capace di conquistare due Coppe dei Campioni consecutive nel '64 e nel '65, ma ancora letteralmente traumatizzata per aver perso, nel giro di una settimana, campionato (a causa della celebre “papera” di Benito Sarti a Mantova che consegnò lo scudetto nelle mani della Juventus) e Coppa dei Campioni (in finale contro il Celtic). E' la squadra dei campioni. E' la squadra di Burgnich e Facchetti, di Corso e Mazzola, di Jair e Suarez. Insomma, è Davide contro Golia. Ed i nerazzurri certo non desiderano concludere la stagione a bocca asciutta. Ma Herrera commette un errore: sottovaluta il Padova, spedendo in campo molte seconde linee. Ne nascerà una partita storica; Dopo una prima mezz'ora di studio, il match si infiamma, accendendo l'entusiasmo sugli spalti, con i biancoscudati che passano in doppio vantaggio grazie alle reti di Carminati (al 29') e Morelli (al 36'), per poi subire, nel giro di quattro minuti a cavallo tra il 39' ed il 43', la rimonta nerazzurra griffata Suarez e Mazzola, le punte di diamante della squadra ospite. Al termine dei primi quarantacinque minuti di gioco dunque, l'inerzia della gara è tutta dalla parte della banda-Herrera. Per il Padova si prospetta un secondo tempo di fuoco. Ma per la quarta volta dopo i precedenti con Venezia, Palermo e Napoli, Bigon e compagni riescono a reagire alla rimonta avversaria, ristabilendo il vantaggio al 58' con il bomber di coppa Italo Carminati, alla sua quarta marcatura nella competizione. Nonostante l'assedio finale dei nerazzurri alla diligenza biancoscudata, il punteggio rimase invariato: 3 a 2 per i padroni di casa e qualificazione ottenuta per la finale di Roma, in programma sette giorni più tardi. L'ultimo scoglio (o meglio, l'ultima montagna), che separa il Padova dalla vittoria finale è il Milan, uscito vincitore ai supplementari dall'altra semifinale contro i neo campioni d'Italia della Juventus. Ed eccoci dunque ritornati all'incipit del nostro racconto. Nel tunnel d'ingresso in campo i biancoscudati si ritrovano fianco a fianco con i campioni rossoneri. Li guardano con reverenza, forse con un po' di timore, ma certamente determinati a dare il 100% in campo. Sugli spalti dello stadio Olimpico, però, non ci sono bandiere bianche e rosse a supportare gli uomini di Rosa (in città il tifo organizzato nascerà solamente una dozzina di anni più tardi). E qui inizia il racconto del tecnico argentino, tratto da “Biancoscudo”: “Non è venuto nessuno da Padova. La Coppa Italia è stata snobbata sia dalla città che dalla dirigenza. Il copione della partita era già scritto. Poco prima della finale viene da me Scagnellato (all'epoca segretario della società) e mi fa: mettiti il cuore in pace che questa partita non la vinci. Deve vincere il Milan. Sono arrivati dalla Federazione, c'era già chi domandava dove dovessero mettersi per alzare la coppa.” Ma Rosa non vuole credere alle parole del buon vecchio Lello. Questo l'undici scelto dal mister per la finale: Pontel, Cervato, Barbiero, Frezza, Barbolini, Sereni, Carminati, Bigon, Morelli, Fraschini, Novelli. Il Milan risponde con: Belli, Anquilletti, Schnellinger, Maddè, Trapattoni, Baveni, Mora, Rivera, Amarildo, Lodetti, Fortunato. La gara si rivela subito tirata. Troppa la paura di perdere da parte dei biancoscudati, che faticano ad arrivare nei pressi della porta avversaria, ma nel contempo riescono a proteggere a dovere i pali difesi da Pontel, costringendo i rossoneri sullo 0 a 0 al termine dei primi quarantacinque minuti. Ma Humberto Rosa si rammarica ancora con malizia pensando alle parole di Scagnellato: “All'inizio della finale c'era un rigore grande quanto una casa su Bigon. Nessuno però si è stupito che non lo avessero fischiato”. In apertura di secondo tempo accade perciò l'inevitabile: vantaggio del Milan con Amarildo, abile a trasformare in gol un traversone rasoterra dalla sinistra dopo essere sgusciato sul filo del fuorigioco tra le maglie della difesa biancoscudata. Inutili le proteste della retroguardia veneta nei confronti del guardalinee. Il gol è valido. La Coppa prende dunque per la prima volta la via di Milano, sponda rossonera. Si infrangono così in finale, all'ultimo capitolo, i sogni di gloria del Padova di Humberto Rosa. Una squadra capace di lottare titanicamente contro il gotha del calcio italiano per rincorrere un sogno chiamato Coppa Italia. Certo, sull'albo d'oro della competizione rimarrà impresso il nome dei rossoneri, ma, come diceva il compianto Giorgio Faletti, l'importante non è quello che trovi alla fine di una corsa, ma quello che provi mentre corri. Grazie, piccolo grande Padova 1966-1967.

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    Storia e gesta di Silvio Appiani, un capitano in prima linea
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    15.09.2014 15:34 di Alessandro Vinci articolo letto 55 volte
    Silvio Appiani
    Silvio Appiani
    Ci sono due ragazzi. Uno sta giocando a calcio in un campo verde con i suoi compagni di squadra. E' ancora molto giovane, ma tutti hanno già capito che il futuro per lui sarà più che roseo. L'altro è invece impegnato al fronte, in guerra, alle prese con i bombardamenti nemici. Combatte per difendere la patria e per salvarsi la pelle. Il primo pensa al futuro, il secondo non ne ha il tempo. Questi ragazzi sono in realtà la stessa persona. E questa persona risponde al nome di Silvio Appiani. Appiani nasce a Vicenza (anche se alcune fonti propendono per Padova) il 21 settembre 1894. Da ragazzo, si divide tra studio (frequenta il Liceo Classico Tito Livio e poi, all'Università, la facoltà di medicina) e calcio, arrivando ad esordire con la maglia del Padova non ancora diciannovenne, in occasione del derby del 4 maggio 1913 contro il Petrarca, gara valevole per la terza e penultima giornata del Campionato Veneto di Promozione 1913, al quale partecipava, oltre alle due compagini padovane, anche l'Udine. Nelle due gare d'andata il Padova non era riuscito ad ottenere nemmeno un punto, sconfitto per 6 a 0 dal Petrarca e per 3 a 1 dai friulani. A promozione in Prima Categoria (antesignana dell'attuale Serie A) praticamente sfumata, ecco dunque l'esordio del giovane attaccante biancoscudato (passateci il termine, anche se il Padova vestiva all'epoca una maglia nera fasciata di bianco). Ed il risultato fu lusinghiero, soprattutto considerando il punteggio dell'andata: 2 a 2, con Pedrina e Zambotto a rispondere al doppio vantaggio petrarchino ed a regalare il primo punto stagionale ad un Padova che in seguito vedrà improvvisamente riaccendersi una fiammella di speranza-promozione. Eh sì, perché il Petrarca riuscirà ad ottenere bottino pieno nelle due sfide contro l'Udine, permettendo così potenzialmente al Padova di sopravanzarlo in classifica, in caso di vittoria all'ultima giornata. Una vittoria che però non arriverà. Nonostante la riconferma di Appiani nell'undici titolare infatti, i biancoscudati vengono travolti dai padroni di casa per 5 a 0 e dicono addio ai sogni di gloria. Ma sarà la stagione successiva quella della consacrazione per il giovane attaccante vicentino. Una consacrazione che non potrà che arrecare beneficio al rendimento della squadra, che otterrà finalmente la tanto agognata promozione in Prima Categoria. Unico ostacolo al suo raggiungimento: la squadra B dell'Hellas Verona, militante all'epoca in massima serie. Gara d'andata in programma nella città scaligera il 5 aprile 1914. Il finale? 3 a 3, con doppietta di Appiani (nel frattempo diventato capitano, a dispetto dell'ancor giovanissima età) e gol di Turra. Il verdetto promozione viene dunque rimandato alla gara di ritorno, in programma due settimane più tardi, ma nel frattempo, il 12 aprile, i biancoscudati sono di scena a Venezia per un'amichevole. Succede però che, in seguito ad un dubbio calcio d'angolo (!) concesso dall'arbitro Lanza in favore dei lagunari, capitan Silvio Appiani, ordini ai suoi compagni di abbandonare la gara in segno di protesta, facendo dunque terminare il match prematuramente, fra le proteste del pubblico di casa. Il curioso episodio veneziano abbandona presto le pagine dei giornali, poiché sette giorni più tardi il Padova si gioca la prima promozione della sua storia in Prima Categoria contro l'Hellas Verona. Il fattore-campo si rivela determinante e i biancoscudati superano gli scaligeri per 1 a 0 con rete di Mario Pedrina alla mezz'ora del primo tempo. Padova festeggia. E ringrazia il suo baby capitano-bomber Silvio Appiani. Prima di intraprendere la nuova avventura in massima serie, però, i biancoscudati sono chiamati a giocarsi il titolo di campioni del girone veneto-emiliano contro l'Audax Modena, uscita vincitrice dalla propria eliminatoria. Ed anche stavolta Appiani si rivela decisivo, sebbene l'avversario non si riveli certamente dei più impegnativi, siglando ben cinque reti durante i due scontri contro la squadra emiliana: tre all'andata (5 a 1 il finale in favore del Padova) e due al ritorno (5 a 0). A partire dall'ottobre successivo però gli avversari non sarebbero più stati così morbidi. Ma Appiani non è tipo da farsi intimidire. E lo fa capire da subito, andando a segno nel 3 a 1 che il Padova subisce a domicilio dal Vicenza, all'esordio in campionato, ed anche la settimana successiva contro l'Hellas Verona (5 a 2 il finale in favore degli scaligeri), per poi, sette giorni più tardi, trascinare i suoi al primo successo della storia del Padova in Prima Categoria con una pregevole doppietta sul campo dell'Udine (4 a 2 il finale). Dopo tre giornate il Padova ha dunque racimolato solamente due punti sui sei disponibili, ma lo score del suo giovane attaccante parla chiaro: quattro gol in tre partite, che al termine del girone d'andata risulteranno sei in cinque, dopo il pareggio per 1 a 1 contro il Venezia e la vittoria per 2 a 0 contro il Petrarca. Al giro di boa la classifica del girone recita: Vicenza 10 punti, Hellas Verona 8, Padova 5, Venezia 4, Petrarca 2, Udine 1. L'imperativo in casa Padova è fare punti per mantenere la terza piazza e conquistare il passaggio alla fase successiva, ma la prima giornata di ritorno si profila molto impegnativa: il Padova è di scena nella tana del Vicenza capolista. Una sola parola per descrivere il match: debacle. 10 a 2 il finale e prima partita a secco di gol per Appiani. Una mazzata che verrà replicata la settimana successiva dall'Hellas Verona, che asfalterà i biancoscudati con 7 a 2 (reti padovane di Appiani e Peyer). Un doppio colpo che risulterà fatale ai fini della qualificazione al turno successivo, al quale accederanno Vicenza, Hellas e Venezia. Il Padova chiuderà la sua prima stagione in massima serie al quarto posto (a meno cinque punti dai lagunari, terzi classificati) ed Appiani segnerà altre quattro reti nelle ultime tre partite (una ad Udine e Petrarca e due al Venezia), terminando il campionato a quota undici marcature (messe a segno in dieci partite) che, se sommate alle sette siglate la primavera precedente in Promozione, producono un totale di diciotto gol in quattordici partite. Non male per un ragazzo di nemmeno vent'anni. La storia di Appiani in biancoscudato terminerà poi la primavera successiva con la conquista della Coppa Veneta, torneo nato su iniziativa del Venezia, che il Padova si aggiudicherà in finale contro l'Hellas Verona (alla competizione, oltre alle tre squadre già citate partecipava anche il Vicenza), a Patto di Londra già firmato. Purtroppo però, non sono pervenuti sino ad oggi i dati relativi ai marcatori della competizione, ma non fatichiamo ad immaginare un Appiani ancora decisivo. Ma la guerra è ormai alle porte. Non è più tempo di calciare un pallone, purtroppo. E qui si spiega perché al giovane capitano biancoscudato è stato intitolato uno stadio: Appiani va in guerra. Chiamata alle armi, penserete voi? No, si arruola volontario. In virtù delle sue conoscenze in campo medico viene inizialmente assegnato al Corpo della Sanità Militare, ma lui rifiuta. Chiede la riassegnazione. Vuole stare in prima linea, in fanteria. E viene accontentato: il 5 ottobre 1915 entra a far parte, come sottotenente, del 139o reggimento, brigata “Bari”, di stanza a Bosco Lancia, nel comune di Savogna d'Isonzo, sul Carso. Qui perirà due settimane più tardi, il 21 ottobre, dunque un mese dopo il suo ventunesimo compleanno, sotto un pesante bombardamento austriaco. Inutile stendere retorico inchiostro sullo spessore umano di questo ragazzo, che è sotto gli occhi di tutti. C'è spazio solo per rispetto ed ammirazione. Recenti ricerche hanno appurato che i suoi resti non si trovano né sul Carso, né nella tomba di famiglia al cimitero maggiore di Chiesanuova (dove comunque c'è una lapide che lo ricorda), bensì al Sacrario Militare di Redipuglia, in una delle due grandi tombe comuni, dove riposano insieme a lui, altri 60000 soldati mai identificati. A questo punto però si fa strada una suggestiva congettura: c'è una seppur infinitesimale possibilità che Silvio Appiani riposi nella tomba del Milite Ignoto a Roma, al Sacrario della Patria in Piazza Venezia. Il Milite Ignoto, infatti, venne scelto tra undici bare anonime, alcune delle quali provenivano proprio dal Carso, teatro delle battaglie più cruente che l'Esercito Italiano affrontò nella Grande Guerra. In sua memoria il Padova intitolò lo Stadio di Via Carducci, inaugurato il 19 ottobre 1924, anche se la targa che ne riporta il nome è stata apposta solamente lo scorso 22 maggio. Domenica ricorrerà il centoventesimo anniversario dalla nascita di questo campione, dentro e fuori dal campo, che il biancoscudo ha avuto l'onore di avere tra le proprie fila. Un invito a tutti per quel giorno a fermarsi, anche solo per un attimo, ed a rivolgere un pensiero alla memoria di Silvio Appiani. Un capitano in prima linea.

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    Successi ed intuizioni di Piero Aggradi, uomo che ha fatto grande il Calcio Padova
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    22.09.2014 14:05 di Alessandro Vinci articolo letto 366 volte
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    “Questi sono venuti qui per distruggere tutto”. Era l'indomani della retrocessione in Serie B del Padova, nel 1996. E Viganò aveva appena dato il benservito a Mauro Sandreani. Una frase sussurrata confidenzialmente ai tifosi presenti a Bresseo. Un frase che si rivelò profetica. Chissà cos'avrebbe detto la scorsa stagione, intuito lo scempio che qualche altro imprenditore venuto da lontano stava per commettere ai danni del Calcio Padova. Di chi stiamo parlando? Di Piero Aggradi, indimenticato direttore sportivo del Padova anni '90. Di lì a poco avrebbero mandato via anche lui, salvo poi richiamarlo nel novembre del 1997 al posto del dimissionario Altobelli per cercare di rimettere in sesto una situazione ormai indirizzata verso il baratro. Ma andiamo con ordine, perché Aggradi, prima che ottimo dirigente, è stato anche discreto calciatore. Torinese classe '34, all'età di dodici anni entra a far parte del settore giovanile della Juventus, per poi, terminata la consueta trafila, venire spedito dalla società bianconera in prestito prima al Monza, in Serie B, e successivamente alla Carrarese, in C. Nel 1954 quindi eccolo tornare alla casa madre, dove rimarrà per tre stagioni, durante le quali totalizza solamente 14 presenze complessive, esordendo in Serie A il 30 ottobre 1955 in occasione di un Roma-Juventus terminato 1 a 1. Dopo le altrettanto poco prolifiche esperienze a Palermo ed Alessandria, Aggradi trova la sua dimensione in Serie C, al Pordenone, con cui conquista, nel ruolo di centromediano, un ottimo terzo posto finale nella stagione 1959-1960 (miglior piazzamento di sempre della squadra friulana). Quella stessa estate, però, viene ceduto al Cesena, sempre in Serie C. Ma dopo un solo anno in Romagna, il torinese Aggradi decide di tornare nel suo Piemonte e si accasa al Casale, con cui, in due stagioni, colleziona 47 presenze impreziosite da 18 reti. Dopo la retrocessione dei nerostellati in Serie D, decide di avvicinarsi ulteriormente a casa passando al Chieri, che all'epoca militava in Serie D, dove concluderà la carriera nel 1966 all'età di trentadue anni. Appese le scarpette al fatidico chiodo, sceglie di intraprendere la carriera da dirigente, ottenendo il suo primo incarico nel 1974, come direttore sportivo del Pescara neopromosso in Serie B. Come andò a finire? Tre anni più tardi gli abruzzesi ottennero la prima promozione in Serie A della loro storia. L'esperienza in massima serie, però, si rivelò effimera e povera di soddisfazioni per i biancoazzurri e la squadra tornò subito in Serie B, dopo aver concluso il campionato al sedicesimo ed ultimo posto, con un magro bottino di soli diciassette punti. Per Aggradi è il tempo dei saluti. Il suo posto viene preso da Giovanni Ballico (futuro segretario del Padova dal 1980 al 1984). Aggradi non impiega molto a tornare in pista e, rotolando verso sud, si accasa in Serie A al neopromosso Catanzaro, che, allenato da Carletto Mazzone, a fine stagione si classificherà al nono posto. Niente male per una squadra che sino all'anno precedente aveva giocato in B. Dal 1981 al 1986 eccolo poi al Campobasso, squadra che puntualmente nella stagione 1981-1982 ottiene la sua prima promozione in Serie B, permanendovi sino al 1987, ma, a quel punto, Aggradi aveva già salutato il Molise. Nel frattempo, il 13 febbraio 1985, giorno dell'inaugurazione del Selvapiana, i padroni di casa avevano conquistato una storica vittoria per 1 a 0 contro la Juventus di Boniek e Platini (che di lì a poco avrebbe vinto la Coppa dei Campioni, anche se nell'occasione ci sarà ben poco da gioire) nella gara d'andata degli ottavi di finale della Coppa Italia di quella stagione (per la cronaca, il ritorno a Torino terminò 4 a 1 in favore dei bianconeri). Nella sua risalita dello stivale, prima di giungere a Padova, Aggradi fa tappa a Perugia. Con lui in veste di ds, i grifoni, scivolati in Serie C2 due anni prima a causa del coinvolgimento nel totonero-bis, nel 1988 risalgono in C1 guidati in panchina da Mario Colautti ed in campo da due giovani assai promettenti: Fabrizio Ravanelli, prodotto del vivaio, e Angelo Di Livio, in prestito dalla Roma. Colautti e Di Livio. Due nomi che troveremo presto alle nostre latitudini, così come lo stesso Aggradi, che il 15 maggio 1989 sostituisce Pastorello, passato al Parma, nel ruolo di direttore sportivo del Padova di Puggina, all'epoca in Serie B ed a digiuno di Serie A da ben ventisette anni. L'obiettivo del Presidente è presto detto: riconquistarla. Ed il Padova, con Aggradi, ci riuscirà. In vista della stagione 1989-1990 si fanno due nomi per la panchina biancoscudata per il dopo-Buffoni: Nevio Scala e Mario Colautti. A spuntarla, a sorpresa, risulta invece Enzo Ferrari, reduce da una non esaltante esperienza ad Avellino. Per quanto riguarda il mercato, giusto per far capire ai tifosi di che pasta è fatto, Aggradi durante l'estate fa arrivare all'ombra del Santo un giovane e pressoché sconosciuto terzino che militava nel Brindisi. Un giocatore che i tifosi impareranno ben presto ad apprezzare: il ventunenne Antonio Benarrivo. Altri acquisti estivi sono quelli di Pradella, Albiero, Bistazzoni, Murelli e Pasa. La squadra però non ingrana, nonostante il nome del suo allenatore. Ad ottobre, nella finestra autunnale del calciomercato, Aggradi è perciò chiamato a calare gli assi e porta in biancoscudato un certo Nanu Galderisi, ventisettenne attaccante salernitano di proprietà del Milan, che solamente quattro anni prima aveva vinto da protagonista lo scudetto con la maglia dell'Hellas Verona, partecipando poi ai Mondiali messicani dell'anno successivo. I tifosi però storcono il naso. Lo credono un giocatore pressoché finito, ormai entrato nella fase calante della sua carriera. Il tempo darà loro torto. Rammentiamo a proposito un dato: nel 2010 Nanu è stato eletto “Calciatore biancoscudato del Secolo”, ed i motivi li conosciamo. Ma l'attaccante campano non è l'unico capolavoro autunnale del buon Piero: tra lo sgomento generale, viene acquistato dal Perugia, il suo Perugia, Angelo di Livio, in cambio di Fermanelli, beniamino dei tifosi. Ed anche in questo caso Aggradi ci vide lungo... Il Padova, però, a novembre arranca ancora nei bassifondi della classifica. Dopo la sconfitta di Monza perciò la società esonera Ferrari. A chi affidare il delicato compito di salvare il Padova? Puggina si consulta con Aggradi, che non ha dubbi nel consigliargli Mario Colautti, artefice della promozione del Perugia in Serie C1 l'anno precedente. Risultato? Remuntada biancoscudata e decimo posto finale, a più tre punti sulla zona playout. La stagione successiva, poi, il Padova arrivò ad un centimetro dalla Serie A, non riuscendo però a raggiungerla al fotofinish, nella fatal Lucca. Nonostante ciò, però, anche questa stagione va considerata come un capolavoro di Aggradi, che nel mercato estivo aveva acquistato, tra gli altri, Zanoncelli, Nunziata e Longhi, di ritorno da un'annata a Pescara e, cosa non meno importante, aveva respinto con fermezza le avances dell'Inter per Galderisi (giusto perché era un giocatore finito...). Ma anche stavolta il Padova si era ritrovato ben presto in fondo alla classifica. Colautti non si tocca, ordina Aggradi, che a novembre procede all'acquisto (in prestito) di Demetrio Albertini, diciannovenne centrocampista di proprietà del Milan. Ed anche in questo caso i tifosi non fecero certo i salti di gioia, aspettandosi qualche rinforzo di maggior esperienza. Ed anche in questo caso... Beh, il ritornello è sempre lo stesso. La stagione '91-'92 si rivelò poi un'annata di transizione, con le partenze di Colautti, Albertini e Benarrivo, ed il Padova terminò il campionato a metà classifica, con il vice del nuovo allenatore Bruno Mazzia, Mauro Sandreani, a risollevare in primavera le sorti di una squadra partita, ancora una volta, con il piede sbagliato, cosa che, fortunatamente, non accadrà nella stagione successiva. Aggradi, infatti, puntella la squadra con gli arrivi di Gabrieli, Cuicchi e Modica, che vanno ad aggiungersi alla già rodata ossatura formata dai vari Bonaiuti, Rosa, Ottoni, Franceschetti, Longhi, Di Livio, Nunziata, Ruffini, Galderisi e Montrone. Ma anche stavolta i sogni di gloria dei biancoscudati non si realizzano per un solo punto, con la squadra di Sandreani che termina il campionato al quinto posto, ad una sola lunghezza di distanza da Lecce e Piacenza, promosse in massima Serie. E' un duro colpo per la piazza, che per giunta in estate perde una pedina fondamentale come “il soldatino” Di Livio ed una giovane promessa cresciuta nel vivaio come Alex Del Piero. Alla voce “arrivi”, invece, figura il solo Maurizio Coppola, acquistato dalla Fidelis Andria. Le premesse non sono certo delle migliori per conquistare, dopo tanti tentativi, la promozione in Serie A. E' lo stesso Nanu Galderisi, a posteriori, a dichiarare che quell'anno la squadra era tecnicamente più debole rispetto alle stagioni precedenti. Evidentemente, però, non lo era a livello di affiatamento. Il finale lo conosciamo bene ed è un happy ending, finalmente. Dopo lo spareggio di Cremona, il 15 giugno del 1994, il Padova torna in Serie A, dopo trentadue, lunghissimi anni, durante i quali il biancoscudo aveva persino assaporato l'amaro sapore della C2. Tra gli artefici della promozione, ovviamente, non si può non menzionare colui che quel gruppo lo costruì pezzo per pezzo, mattone dopo mattone: Piero Aggradi. Ma di tempo per festeggiare ce n'è poco. C'è da costruire una squadra da Serie A. Il ds torinese, dunque, si mette subito al lavoro e riesce nell'impresa di allestire un organico che al termine della stagione riuscirà ad ottenere la salvezza, al termine dell'epico spareggio di Firenze contro il Genoa. Gli acquisti sono pochi ma buoni: i colpi del mercato estivo sono quelli di Alexi Lalas, centrale difensivo statunitense messosi positivamente in luce ai Mondiali di casa, e di Goran Vlaovic, attaccante del Croatia Zagabria (attuale Dinamo Zagabria), strappato a sorpresa dalle mani dell'Ajax, squadra dalla quale verrà prelevato, nel mercato autunnale, Michel Kreek, che diventerà da subito pilastro insostituibile del centrocampo biancoscudato. Gli altri volti nuovi portati in biancoscudato da Aggradi sono quelli di Balleri e Zoratto dal Parma e di Carletto Perrone, di ritorno al Padova dopo quindici anni, dall'Atalanta. La stagione successiva, però, il bis non arrivò, complici le partenze di alcuni elementi della squadra titolare quali Maniero, Balleri e Franceschetti, tutti e tre ceduti alla Sampdoria (squadra dalla quale arrivò il giovane Nick Amoruso, che realizzerà ben 14 reti in campionato), in diretta conseguenza dei dettami del presidente Giordani, succeduto l'anno precedente a Puggina: stringere la cinghia. In entrata, perciò, Aggradi cerca di fare di necessità virtù e porta in biancoscudato giocatori dai non esaltanti curricula (Sconziano, Giampietro e Van Utrecht) oppure in prestito (Fiore e Nava). La squadra sembra essersi indebolita rispetto alla stagione precedente. Come se non bastasse, Vlaovic viene costretto ai box per le prime undici giornate di campionato dalla meningite. Il Padova cerca, senza troppa fortuna, di tenersi a galla durante il girone d'andata, per poi arrivare al tracollo verticale in primavera, quando perderà undici partite consecutive, salutando così, dopo due stagioni, la Serie A. Nel frattempo, il 15 marzo, Viganò, insieme ai suoi soci Corrubolo e Fioretti, aveva acquistato ufficialmente il Calcio Padova, diventandone il presidente. A fine stagione, dunque, ecco la rivoluzione, con la sostituzione di Sandreani con Materazzi e di Aggradi con Altobelli. Ma la storia tra Pierone (così era soprannominato dai tifosi biancoscudati) ed il Padova non termina qui. Vivrà infatti un ultimo ed inaspettato capitolo a partire dal novembre del 1997, quando lo stesso Viganò, rimasto orfano dei suoi soci e bisognoso di sostituire il dimissionario Altobelli, lo richiama all'ombra del Santo per tentare di risollevare nel mercato di gennaio le sorti di una squadra che, a sorpresa, stava seriamente rischiando di scivolare in C1. Aggradi si mette al lavoro e cerca di tappare le falle di una barca, quella biancoscudata, ormai ad un passo dal naufragio, scovando tra i dilettanti del Reggiolo uno sconosciuto quanto talentuoso attaccante di nome Vincenzo Iaquinta ed affidando la panchina al suo allenatore di fiducia: Colautti, che va a sostituire Pillon. Ma neppure il nuovo, vecchio condottiero al timone dei biancoscudati riuscirà ad evitare la retrocessione. Sono passati solamente due anni dal '96 eppure i fasti della Serie A e dei campionati di vertice di Serie B sembrano lontani un secolo. No, quello non è più il Padova di Piero. Siamo al capolinea. Aggradi lascia la società biancoscudata nel dicembre del 1999, allontanato da Viganò a causa dei non esaltanti risultati che la squadra stava registrando in campionato. Gli ultimi, fortunati capitoli della lunga carriera del ds torinese sono rappresentati da due brevi esperienze a Chieti prima (promozione in Serie C1 nella stagione 2000-2001) ed a Cava de' Tirreni poi (promozione in Serie C2 nella stagione 2002-2003). A quasi settant'anni d'età, dunque, Aggradi decide di accomiatarsi dal mondo del calcio e di stabilirsi a Pescara, città nella quale aveva lavorato negli anni '70, non disdegnando di presenziare in veste di opinionista in trasmissioni televisive abruzzesi e venete. Il 17 luglio del 2008 si spegne nella sua casa di Pescara, esattamente una settimana dopo il suo amico Lello Scagnellato, colto da improvviso malore. La notizia della sua morte è stata accompagnata da cordoglio e tristezza da parte di tutti coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo. Perché, oltre che abile dirigente e serio professionista, Aggradi era anche un signore, sempre saggio e misurato. Mai una parola fuori posto, mai una polemica di troppo. Inconfondibile poi il suo look alla Federico Fellini con cappello scuro e sciarpa al collo, segni distintivi di un uomo che ha fatto grande il Calcio Padova.
     
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    Il segreto del grande Padova? "Le risate". I più divertenti aneddoti del paròn Rocco
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    29.09.2014 15:03 di Alessandro Vinci articolo letto 448 volte
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    Eh sì, oggi parliamo proprio di lui: del paròn, Nereo Rocco, l'artefice del periodo d'oro del Calcio Padova. L'epoca più fulgida della storia biancoscudata porta la sua indelebile ed inconfondibile firma. Sette i suoi anni all'ombra del Santo: dal marzo del 1954 al giugno del 1961. Per descrivere esaurientemente la vita ed i successi dell'allenatore triestino occorrerebbe scrivere un libro (cosa che, peraltro, hanno già fatto in molti, primo fra tutti Gigi Garanzini). Del paròn, personaggio inimitabile, oltre ai risultati, è rimasta nella storia quella sua genuinità, quella sua spontaneità, che ben si sposava con la sua filosofia (anche calcistica) e con la sua ironia, un elemento fondamentale dell'essere Nereo Rocco. Se aveste chiesto a Lello Scagnellato quale fosse stato il segreto del Padova dei record, lui, come del resto gli altri suoi compagni di squadra, non vi avrebbe parlato di tecnica o di tattica, né di grinta o di tifosi. Vi avrebbe parlato di risate: “Noi passavamo tutto il giorno a tenerci la pancia con le mani. Questo aveva saputo creare: il divertimento continuo. Spesso nel calcio ci si annoia a stare insieme, ad aver di fronte sempre le stesse facce. Noi invece non vedevamo l'ora di ritrovarci per scoprire cos'altro si era inventato Rocco”. Ecco dunque una raccolta di aneddoti firmati dal paròn, tutti rigorosamente in salsa biancoscudata.

    Le frasi: Di ironia, abbiamo appena scritto. Una qualità inscindibile dalla parola. Era un linguaggio tutto suo, quello di Rocco. A metà tra triestino ed italiano, ma di comprovata e tagliente efficacia. Una frase è rimasta celebre nell'immaginario collettivo: “A tuti quel che se movi su l'erba, daghe. Se xe el balon, no importa”. Ma questa frase il paròn non l'ha mai pronunciata. Ed a spiegarne il motivo a Garanzini sono Scagnellato e Rivera, gente che Rocco l'ha conosciuto bene. Così l'ex capitano biancoscudato: “Conosco questa frase, so che gli è stata attribuita ed è diventata leggenda metropolitana. Ma non gliel'ho mai sentita pronunciare. E stento a credere che possa averla detta, perché in quegli anni a Padova con Azzini, Blason, me e compagnia non era certo necessario sollecitare il temperamento agonistico della squadra. Semmai il contrario”. Sulla stessa linea l'abatino rossonero: “Una frase come questa Rocco non l'avrebbe detta nemmeno da ubriaco. Ammesso e non concesso che Rocco sia mai finito davvero ubriaco. Sarebbe stata contraria alla sua cultura, che contemplava la virilità, la forza fisica, ma non la violenza. L'ho sentito un'infinità di volte raccomandare una marcatura stretta, continua, asfissiante, ma non gli ho mai sentito dire di far male a qualcuno”. A quest'ultimo ambito si ascrive alla perfezione una raccomandazione rivolta prima di una partita contro il Milan a Gastone Zanon, che aveva l'arduo compito di marcare Pepe Schiaffino: “Ti te lo prendi in spogliatoio, no te lo moli mai, e s'el va a pissar te ghe va drio”. Ed anzi, quando, ad esempio, in un derby contro il Vicenza, lo stesso Zanon era intervenuto con troppa irruenza su Sergio Campana, all'intervallo Rocco non esitò a rimprovarare: “Ciò, te go dito de tocarlo, no de coparlo!” A chi dunque conferire la paternità di questo aforisma? A Guglielmo “Memo” Trevisan, calciatore ed allenatore triestino classe 1916 caro amico di Rocco. Mito sfatato. Passando invece alle frasi realmente pronunciate dal paròn, la più celebre è forse la seguente, rivolta ad un giornalista torinese che lo salutava dopo un'intervista alla vigilia di un Padova-Juventus: “Allora domani vinca il migliore!”. Di geniale semplicità la risposta di Rocco: “Ciò, speremo de no!” Proprio vero ciò che diceva Blason, uno dei suoi fedelissimi: “Rocco era un timido con il dono della battuta fulminante”. Per la cronaca, la partita, disputatasi il 29 aprile del 1956, terminò sull'1 a 1, con Bonistalli a pareggiare il vantaggio bianconero di Montico a dieci minuti dal termine. Celebre anche un altro episodio avvenuto con un giornalista, il quale, evidentemente disprezzando (come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, all'epoca), il difensivismo del Padova, chiese sarcastico a Rocco se la domenica successiva, a Bologna, la squadra biancoscudata avrebbe adottato un atteggiamento un po' più spregiudicato. E la risposta del paròn fu affermativa: “In onor suo -esordì con un leggero inchino- le prometo con solenità che domenica la vedarà tuti davanti”. Ma in Emilia il Padova ripropose il solito catenaccio con cui strappò il pari ai padroni di casa. Due giorni più tardi il giornalista si presentò all'Appiani per chiedere spiegazioni: “Tutti davanti eh, signor Rocco?” E lui: “Se capissi... Tuti davanti... A Pin (il portiere n.d.r.)!” Infine, per concludere questa rassegna delle frasi biancoscudate di Nereo Rocco, ecco un estratto di un'intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport nel 1958 che la dice lunga sui metodi di allenamento del paròn: "Ci alleniamo tutti i giorni dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 18. L'allenamento è tecnico, fisico e morale, sono per me tutti e tre alla pari. Non uso tabelle e non faccio lezioni teoriche, la mia tabella è il campo e lì, con esempi pratici, al martedì rivediamo gli sbagli fatti alla domenica".
    La soffiata giusta: Sabato sera. Rocco e Scagnellato hanno appena finito di cenare da Cavalca. Avendo famiglia, il capitano biancoscudato fa per alzarsi per tornare a casa. “Dove veto! -esclama il paròn- Stasera te vien con mi che li bechèmo.” Scagnellato inizialmente non capisce. Poi si fa tutto più chiaro: Rocco disponeva di un'ampia ed efficiente rete di informatori che controllavano gli orari di rientro dei giocatori del Padova. E quella sera aveva avuto la soffiata giusta. Attorno alla mezzanotte, Rocco e Scagnellato si presentano in Via del Santo. E sentono provenire da una finestra aperta le voci di alcuni calciatori che giocavano a carte. “Io e Rocco siamo stati a guardarci lì sotto in silenzio per dieci buoni minuti. -racconta Scagnellato a Gigi Garanzini- Non riuscivo a capire che intenzioni avesse, ma ad ogni minuto che passava le vene del suo collo si facevano sempre più gonfie. Ad un certo punto si sente una risata, il paròn alza gli occhi e vede uscire dalla finestra una nuvola di fumo. Ti resta qua, mi vado su e li copo tuti quanti, mi disse. Lo presi per il braccio al secondo gradino. Ed ebbi la sensazione che non aspettasse altro. Noi domani vinciamo -gli dissi- poi ci penso io, da capitano.” Ed, in effetti, fu esattamente quanto accadde. Il martedì successivo alla partita, Scagnellato, come al solito, prende i soldi del premio-partita ed inizia a spartirli tra tutti i componenti della squadra. Una volta arrivato il turno del gruppetto colpevole disse: “Il vostro premio è congelato, lo metto da parte. Il perché lo dovreste sapere.” Nessuno fiatò. Ecco un chiaro esempio della collaborazione e dello spirito di gruppo che il paròn aveva instaurato con i suoi calciatori, con i veci, specialmente.
    El Vulcania: Estate del '56. All'Appiani arriva dalla Sampdoria Humberto Rosa, nell'ambito dell'affare-Mori che portò all'ombra del Santo anche Mari. L'argentino si rivelerà presto un acquisto azzeccatissimo da parte del Padova e verrà inserito stabilmente da Nereo Rocco nell'undici titolare a dispensare gioco a centrocampo in direzione degli attaccanti, chiamati a pungere in contropiede. Ma tutto ciò non prima di aver superato le severe prove di iniziazione del paròn, giusto per fargli rendere conto in quale ambiente era capitato. La prima di esse si svolge il giorno stesso dell'arrivo in città dell'argentino: dopo aver concluso le visite mediche, Berto Piacentini (il massaggiatore) gli si avvicina indossando un camice bianco con tanto di stetoscopio per fargli credere di essere il medico e gli dice minaccioso: “Clinicamente è tutto a posto. Ma sul serio lei vuole quattro milioni d'ingaggio? Sono troppi soldi!” Beh, se ne può parlare, non saprei... è la risposta sorpresa del nuovo acquisto. Allora Piacentini, terminata la missione, va da Rocco e lo rassicura sull'indole dell'argentino. “Allora xe un bon mulo”, pensa il tecnico triestino. Ma non basta. Una volta superata la prova-Piacentini, è la volta della prova-Rocco, che, per forgiare lo spirito del nuovo arrivato, in spogliatoio lo strapazza ed in campo lo rimprovera spesso con frasi del tipo: “Ciò, muchacho, cossa la speta a ciapar el Vulcania (la nave che da Trieste arrivava in Argentina n.d.r.)?”, oppure dandogli del toco de mona, provocando così le ire del centrocampista, che, se non fosse stato per i suoi compagni di squadra, mandati da Rocco a rincorrerlo, sarebbe sicuramente scappato dal nuovo allenatore con la speranza di non rivederlo mai più. Una parola, mona, della quale il paròn faceva largo uso, il più delle volte in maniera scherzosa, ma che l'argentino Rosa inizialmente fraintendeva: “Essendo io madrelingua spagnolo -ci spiega- credevo che mona fosse il femminile di mono, che nella mia lingua significa scimmia. Quante volte me ne sono andato, stufo che Rocco mi desse della scimmia! Meno male che c'erano i miei compagni, specialmente Mari e Pin, che già conoscevo dai tempi della Sampdoria, a dirmi che in realtà mona non era un insulto cattivo e che non voleva dire quello che pensavo io. Il divertimento? Sì, è vero, quello c'era sempre. E si è rivelato un fattore davvero importante per noi. Era questa l'abilità di Rocco: il clima che aveva creato faceva sì che avessimo sempre fiducia e morale alto. Nel calcio è facile abbattersi. E succede all'improvviso. Magari perdi una partita, il pubblico ti fischia, i giornali ti criticano... Ma proprio grazie al divertimento ed alle risate, nel nostro spogliatoio non c'è mai stata aria pesante. Sì, Rocco è stato un personaggio speciale che oggi sarebbe impossibile trovare in circolazione”.
    Allegri risvegli: Anni '50, trasferte al sud. Si va in treno, preferibilmente di notte, per non sentire il viaggio. Ma il tempo andava comunque passato, possibilmente divertendosi. Leggenda narra che era tradizione che Berto Piacentini, il massaggiatore, superdotato storico, al risveglio andasse da Blason con il classico “alzabandiera” mattutino, e che l'ex libero della Triestina gli infiocchettasse il tutto con un nastrino colorato, per poi accompagnarlo, insieme a tutta la squadra, a dare il risveglio al paròn. Una volta udito il bussare di Piacentini con l'accessorio suddetto, Rocco, fingendosi sgomento ed indignato, dopo aver minacciato il licenziamento al suo fido collaboratore, ordinava ai giocatori di lanciare a quest'ultimo dell'acqua fredda per fargli abbassare la... “cresta”. Così per Piacentini finiva regolarmente a secchiate, tra le risate di tutti. Il repertorio degli scherzi era comunque vasto: uno dei classici era, ad esempio, rubare di notte le scarpe a qualcuno e riempirle di dentifricio, della cui presenza il proprietario si sarebbe accorto solamente la mattina seguente quando ormai vi aveva infilato il piede.
    I due mona: Com'è normale, però, non sempre si poteva andare d'accordo, capitava anche di litigare. Ed una volta accadde a Rocco e Blason. Proprio loro che si conoscevano da anni, essendo stati prima avversari e poi, durante la guerra, compagni di squadra nelle selezioni friulane che affrontavano le squadre dei soldati alleati di stanza in quelle zone per intrattenere e distrarre la popolazione, per poi ritrovarsi, l'uno calciatore e l'altro allenatore, nella Triestina dei miracoli che concluse al secondo posto la Serie A 1947-1948. E proprio alla luce di questa lunga amicizia, Blason era l'unico a dare del tu a Rocco, e viceversa. Ed era anche, forse ancor più di Scagnellato, il suo consigliere più fidato. Una sera però, da Cavalca, confrontandosi sulle sorti della squadra, i due baruffarono aspramente: “Da questo momento, mi devi dare del lei”, disse, in italiano (e ciò è indicativo), Nereo Rocco. “Se anche tu me lo dai”, rispose Blason. Gelo assoluto. Per due settimane non si parlarono. Nemmeno un saluto. Finché un giorno, al termine di un allenamento, la squadra stava effettuando i classici giri della pista del Monti prima di tornare in spogliatoio. Rocco, un po' alla volta, manda tutti a fare la doccia. Tutti tranne Blason. I due si ritrovano fianco a fianco sulla pista del Monti per minuti e minuti, giri e giri, che si fanno sempre più lenti. Entrambi sono stanchi ma nessuno vuole mollare. Finalmente, ad un certo punto, Rocco cede e sentenzia:“ciò, gavemo da far ancora i mona?”. Pace fatta.
    Il richiamo del pallone: Anche il paròn quando vedeva un pallone tornava bambino. D'altra parte, prima di allenare, Rocco era stato una mezz'ala di buon livello: gran parte della sua carriera la trascorse alla Triestina, in Serie A, dal 1929 al 1937, per un totale di ben 232 presenze (arricchite da un notevole bottino di 66 reti), arrivando nel frattempo, il 25 marzo del 1934, ad esordire in Nazionale in occasione di una gara interna contro la Grecia valevole per le qualificazioni al mondiale casalingo in programma tre mesi più tardi. Quella fu la sua unica presenza in azzurro. Una presenza che però gli cambiò la vita: con i regolamenti dell'epoca, per diventare allenatori, bisognava aver giocato in Nazionale almeno una volta. E lui l'aveva fatto. Dal 1937 al 1940 militò poi nel Napoli e successivamente, dal '40 al '42, nel Padova, in Serie B (47 presenze ed 11 gol). Infine, chiuse la carriera in Serie C, militando prima nella squadra militare del 94° Reparto Reggimento Distrettuale di Trieste e nella Libertas Trieste poi. Ecco spiegato perché si aggiungeva spesso e volentieri alle partitelle di fine allenamento della squadra oppure alle arroventate sfide semiclandestine di calcio-tennis improvvisate dai suoi giocatori con in palio, solitamente, una lattina di birra, un panino, o qualcosa del genere. Sfide che non di rado generavano tra i partecipanti diverbi e scontri fisici che lo stesso Rocco era in dovere di sedare. Questo era il rapporto del paròn con i suoi giocatori. Un rapporto di collaborazione e di complicità, schietto e sincero, senza formalità né segreti; basti pensare che era lui il primo a reclamare in spogliatoio la sua parte dei premi partita che capitan Scagnellato distribuiva ogni martedì. Oppure che non utilizzava uno spogliatoio personale: lo divideva (per scelta) con i suoi calciatori, si cambiava e si faceva la doccia insieme a loro. Forse perché non ha mai smesso di sentirsi calciatore, forse perché voleva essere parte attiva di quello strano luogo dove si costruiscono rapporti e si vincono campionati chiamato spogliatoio. Un divertente episodio accadde mercoledì 5 marzo 1958. Il sogno scudetto era ormai svanito per i biancoscudati, Rocco decise perciò di aprire al pubblico la consueta sfida settimanale con i giovani del vivaio allenati da Tansini, storico responsabile del settore giovanile biancoscudato. All'Appiani si presentarono in seicento. Ad un certo punto, Rocco sostituisce Mari per far scendere in campo... Sé stesso! Lo spirito del vecchio calciatore non è mai svanito, perciò il paròn, voglioso di far bella figura, ingaggia un duello personale con Pin -per l'occasione portiere della squadra dei giovani- cercando di trafiggerlo ripetutamente. Ma l'ex estremo difensore della Sampdoria risulta insuperabile. Rocco al termine del match è costretto a rimanere a bocca asciutta e chiede ironicamente ai presenti: “savìo se ghe se portieri liberi sul mercà per sostituire sto qua?”



    Per la stesura di questo articolo ringraziamo Humberto Rosa, preziosa fonte di informazioni.
     
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    1929-1930: il Padova retrocede nel primo campionato di Serie A a girone unico della storia del calcio italiano
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    06.10.2014 15:29 di Alessandro Vinci articolo letto 55 volte

    Bello sarebbe scrivere sempre di gioie e di vittorie, di soddisfazioni e di capitoli felici. Questa però non sarebbe la storia del Padova. Non sarebbe la storia di nessuna squadra di calcio, nemmeno di quelle più blasonate, a dir la verità. Certo è che le ultracentenarie vicende biancoscudate sono state indelebilmente caratterizzate da alti e bassi, da veloci salite seguite da ripide discese, saliscendi per cuori forti (per info, vedasi avvenimenti delle ultime stagioni e/o degli ultimi mesi) con i quali il tifoso padovano si è trovato costretto a convivere sin dai primi vagiti. Uno dei più datati esempi di ciò avvenne a cavallo tra gli anni '20 e gli anni '30, quando il Padova riuscì a qualificarsi per il primo campionato di Serie A a girone unico della storia del calcio italiano, per poi venirne subito estromesso causa retrocessione. Siamo nell'estate del 1929. In città si respira entusiasmo attorno al mondo della compagine biancoscudata, unica squadra veneta ad essersi qualificata per il nuovo campionato di massima serie, trascinata dalle reti del suo implacabile bomber Giovanni “Nane” Vecchina (ben 23 in 25 partite disputate), che contribuirono in maniera determinante al raggiungimento dell'ottavo posto finale, l'ultimo utile per staccare il pass per la neonata Serie A a sedici squadre, che verrà poi estesa a diciotto con l'inclusione nel massimo campionato italiano anche della Triestina, piazzatasi al nono posto nel girone A, alle spalle dello stesso Padova, per motivi politico-patriottici (si ricordi che siamo in piena epoca fascista). Giustificati dunque i festeggiamenti per celebrare questo prestigioso traguardo, ma il piazzamento della squadra andava anche considerato come un campanello d'allarme: sarebbero occorsi valenti rinforzi per affrontare al meglio il nuovo campionato, che avrebbe visto gli uomini di un riconfermatissimo Herbert Burgess scontrarsi ogni settimana con le più attrezzate formazioni dell'ormai ex Divisione Nazionale. Ma alla voce “arrivi”, il 6 ottobre, giorno della prima giornata di campionato, figuravano i nomi dei soli Colognese (portiere di riserva) e Lamon (attaccante), oltre a quelli dei rincalzi offensivi Oriani e Tognana. Naturale conseguenza di ciò: quel giorno, Modena corsaro all'Appiani per 3 a 1, con rete biancoscudata (la prima nella Serie A a girone unico) siglata dal solito, indispensabile Vecchina. Un sapore, quello della sconfitta, che il Padova assaporò anche nelle tre giornate successive, con i KO rimediati al secondo ed al quarto turno rispettivamente contro Torino ed Alessandria (entrambi ancora per 3 a 1), intervallati dalla beffa della terza giornata in quel di Brescia, quando le rondinelle ribaltarono l'iniziale vantaggio padovano di Oriani e Lamon con il gol di Moretti e la doppietta di Prosperi. Zero punti e dodici gol subiti in quattro partite, tanto per gradire. Alla vigilia del match contro la Pro Patria, dunque, il Padova si ritrova fanalino di coda della classifica, ma a Busto Arsizio riuscirà ad ottenere il primo punto della stagione andando ad impattare 0 a 0 contro i padroni di casa. La settimana successiva, ecco in programma il primo vero scontro-salvezza della stagione, con il Livorno (penultimo a quota 2 punti) ospite all'Appiani. Una gara da vincere a tutti i costi, se non altro per ravvivare il morale dei giocatori, oltre che per evidenti motivi di classifica. Ed in effetti, Vecchina e compagni non falliscono: amaranto sconfitti per 3 a 1 grazie alla tripletta di un ispiratissimo Gastone Gamba. Ma questo successo, purtroppo, si rivelerà presto un fuoco di paglia. A far tornare i biancoscudati con i piedi per terra ci pensano in rapida successione Ambrosiana Inter (6 a 1 il finale in favore di Meazza e compagni), Bologna (3-2), Genoa (8-0), Pro Vercelli (5-1) e Lazio (4 a 0). Risultati roboanti che non hanno bisogno di commenti e che rispediscono il Padova sul fondo della classifica, staccato di cinque punti rispetto alla zona-salvezza. La sosta natalizia risulta dunque una manna dal cielo per la squadra, che ha l'occasione di riordinare le idee per cercare il riscatto sotto la guida del nuovo tecnico Aldo Fagiuoli, ex difensore biancoscudato '19-'27, nel frattempo subentrato al suo vecchio allenatore Burgess. Sì, ma quando precisamente? Non si sa, non è giunta fino ad oggi la data dell'esonero dell'inglese. Ciò che è certo, però, è che quest'ultimo si accomodò sulla panchina della Roma a partire dall'ottava giornata, esordendo con un ottimo 2 a 0 sull'Ambrosiana Inter, mentre il Padova era impegnato in casa contro il Bologna. Ma quello avvenuto in panchina non fu l'unico cambiamento avvenuto in seno al Calcio Padova: il 15 novembre (il venerdì successivo alla vittoria contro il Livorno), infatti, dopo un solo anno da presidente del Calcio Padova, il Commendatore Silvio Barbieri aveva comunicato le proprie irrevocabili dimissioni, venendo poi sostituito dal suo vice Federico Bevilacqua, membro di lungo corso della dirigenza biancoscudata. Anno nuovo, risultati vecchi. Sembra essere questo il leitmotiv delle prime partite del 1930, quando i biancoscudati, dopo aver ottenuto un pareggio casalingo con il Milan, cadono contro Cremonese prima e Triestina poi. Ma la settimana successiva accade l'inaspettato: all'Appiani arriva la Juventus capolista, la Juventus di Combi-Rosetta-Caligaris (quest'ultimo, però, assente nell'occasione) e del “Mumo” Orsi. Il verdetto appare scontato. Ma a sorpresa gli uomini di Fagiuoli vanno a conquistare i due punti, imponendosi per 2 a 1 sulla corazzata bianconera con reti di Vecchina e Bedendo e salendo così a quota 6 punti, comunque insufficienti per abbandonare l'ultimo posto in classifica. I biancoscudati concluderanno poi il girone d'andata con una sconfitta rimediata in zona Cesarini a Napoli, nel giorno del “pensionamento” del vecchio stadio Militare dell'Arenaccia e con una roboante e prestigiosa vittoria all'Appiani contro la Roma per 3 a 0. Al giro di boa, dunque, Vecchina e compagni si trovano al penultimo posto della graduatoria a quota 8 punti, seguiti a ruota dalla Cremonese e distanziati di quattro lunghezze dal Livorno, momentaneamente salvo. Nulla è ancora perduto, ma certamente per ottenere la permanenza in massima serie servirà cambiare registro nella seconda metà del campionato, cosa che avviene già alla prima gara del girone di ritorno in quel di Modena, dove i biancoscudati ottengono il primo successo esterno della stagione superando i padroni di casa per 2 a 0 con reti dell'immancabile Vecchina e di Gastone Prendato e salendo così a quota 10, a soli due punti dalla zona-salvezza. Qualcosa è cambiato nell'aria. C'è entusiasmo. Un entusiasmo tale da spingere un gruppo di appassionati, dieci giorni dopo la vittoria emiliana, a fondare al Bar Missaglia “La Rumorosa”, il primo club organizzato di tifosi biancoscudati volto ad incitare, sia in casa che in trasferta, la squadra con l'ausilio di clacson, megafoni e strumenti musicali vari. Evidentemente, questo supporto si fece sentire molto bene nelle due successive gare casalinghe contro Torino e Brescia, entrambe vinte dai biancoscudati rispettivamente per 1 a 0 e 2 a 1. E la classifica non poté che beneficiarne, con il Padova che raggiunse al terzultimo posto Modena e Livorno. L'euforia delle quattro vittorie consecutive, però, andò preso a scontrarsi con le croniche difficoltà accusate dalla squadra in trasferta, ad Alessandria prima (4 a 2 il punteggio a favore dei padroni di casa) ed a Livorno poi (4-3), gare intervallate dalla goleada dell'Appiani contro la Pro Patria: 7 a 0 il finale, con cinquina di un super Vecchina. Il Padova torna dunque in solitaria al penultimo posto a quota 16, staccato di tre punti dalla zona-salvezza e per giunta il calendario vede in programma l'arrivo all'Appiani dell'Inter, che dal sedicesimo turno aveva superato la Juventus in vetta alla classifica. Purtroppo stavolta, a differenza di quanto accaduto tre mesi prima con i bianconeri, il colpaccio contro la capolista non si verificherà: 2 a 1 il finale in favore dell'Ambrosiana, con il solito Vecchina a rispondere invano alle reti avversarie firmate da Meazza e dall'ex di turno Leopoldo Conti. La successiva trasferta di Bologna sembra studiata ad arte per consentire ai biancoscudati di accantonare ogni speranza di salvezza, ma il destino non ha fatto i conti con Gastone Prendato, che allo stadio del Littoriale (attuale Dall'Ara) va a siglare una preziosissima doppietta che regala i due punti al Padova, atteso ora da tre gare casalinghe contro Genoa, Pro Vercelli e Lazio. Il fattore Appiani non tradì: dopo uno scialbo 0 a 0 maturato contro il grifone, ecco arrivare due provvidenziali vittorie contro piemontesi e biancazzurri che catapultarono la truppa di Fagiuoli per la prima volta fuori dalla zona retrocessione, a più tre punti su una Triestina in caduta libera ed addirittura a più dieci sull'ormai spacciata Cremonese, squadre che, guarda caso, il Padova è chiamato ad affrontare a seguito di quella che risulterà essere una disastrosa trasferta in casa del Milan, con i rossoneri che asfaltarono i biancoscudati per 6 a 0. La gara di Cremona si presenta dunque come quella del potenziale riscatto, ma si sa, al Padova nella sua storia è sempre piaciuto complicarsi la vita; La gara si indirizza presto sui giusti binari, con il giovane Perazzolo a portare avanti i suoi al 27'. Ma il gol del raddoppio non arriverà, a differenza di quello del pareggio dei grigiorossi, siglato da Subinaghi a venti minuti dal 90'. Un pareggio che sa di sconfitta dunque per Vecchina e compagni, tanto più considerando il contemporaneo successo della Triestina sull'Alessandria. Biancoscudati e alabardati, alla vigilia dello scontro diretto si trovano quindi appaiati al penultimo posto a quota 24 punti. Quella in programma all'Appiani l'8 giugno è una vera e propria finale. Ci si gioca una grande fetta di salvezza. Nonostante il fattore-campo non favorevole, è la Triestina a partire subito determinata ed a cercare con insistenza il gol del vantaggio. Un'insistenza tale da far sì che il difensore Gazzari, chiamato a trasformare un rigore sanzionato dall'arbitro Caironi al 28', per ben due volte non aspetti il fischio del direttore di gara per calciare, vedendosi convalidare la rete del vantaggio giuliano solamente al terzo tentativo. A seguito del gol siglato dagli ospiti, il Padova non riesce a reagire, la Triestina è un fiume in piena e soli sei minuti più tardi trova il gol del raddoppio con Palumbo. Inutile risulterà la rete realizzata da Perazzolo ad un quarto d'ora dal termine. Gli alabardati espugnano l'Appiani per 2 a 1, spedendo la truppa di Fagiuoli al penultimo posto a sole tre giornate dal termine dei giochi ed attesa dalla proibitiva trasferta in casa di una Juventus ancora in lizza per la conquista dello scudetto. E' il più classico dei testacoda. E sarà il più classico degli epiloghi: 3 a 1 in favore dei bianconeri, trascinati dalla tripletta di Casarini. Contemporaneamente, la Triestina aveva impattato per 2 a 2 in casa contro il Milan, squadra che ormai non aveva più nulla da chiedere al campionato, e superato la Lazio al quindicesimo posto. Il Padova mantiene dunque due lunghezze di svantaggio rispetto al terz'ultimo posto e guarda con speranza alla sfida dell'Appiani contro il Napoli di William Garbutt, già certo della salvezza. Ma in caso di sconfitta sarebbe stata matematica retrocessione per Vecchina e compagni, in astinenza da vittorie da ormai quattro turni. Come andò a finire? Netta vittoria biancoscudata per 3 a 0 con contemporaneo successo della Lazio sull'Alessandria e pareggio della Triestina nello scontro-salvezza contro la Pro Patria. A 90' dal termine del campionato la situazione in coda alla classifica è dunque la seguente: Cremonese ultima ed ampiamente retrocessa a quota 16, Padova 26, Triestina, Modena, Lazio e Pro Patria 28. Per evitare la retrocessione in Serie B gli uomini di Fagiuoli hanno un solo risultato a disposizione all'ultima giornata: la vittoria, con la speranza che una delle quattro squadre a 28 punti venga sconfitta per poter disputare lo spareggio-salvezza. L'avversario è la Roma dell'ex Herbert Burgess, già certa di un anonimo piazzamento di metà classifica. Favori alla squadra che aveva bisogno di punti? No, non era usanza a quei tempi. Si scendeva sempre in campo per onorare la competizione. E per il Padova fu una Caporetto che ebbe come diretta conseguenza la retrocessione: 8 a 0 il finale in favore dei giallorossi (il secondo stagionale subìto dai biancoscudati dopo quello maturato alla nona giornata contro il Genoa). Un risultato che non concede spazio a repliche e che lascia un grande amaro in bocca, perché nel frattempo sia la Lazio che la Triestina avevano perso rispettivamente contro Juventus e Napoli. A vent'anni esatti dalla fondazione, ecco dunque arrivare la prima retrocessione della storia per l'ACP (o meglio, AFCP, all'epoca). Per fortuna però, i biancoscudati impiegheranno solamente due stagioni per tornare in massima serie. A proposito di saliscendi.
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    Herbert Burgess, il mister
     
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    Storia e trasformazioni della maglia biancoscudata, una passione ultracentenaria
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    13.10.2014 15:58 di Alessandro Vinci

    Alla fine tutto ruota attorno a lei. Il resto passa, soccombe alla tirannia del tempo, viene sostituito. E questo vale per giocatori, allenatori, presidenti, stadi. Anche i tifosi cambiano, col lento ed appassionato susseguirsi delle generazioni sugli spalti. Ma al centro c'è una cosa sola. Che mai svanirà, nonostante i maldestri tentativi di qualche imprenditore venuto da lontano. Stiamo parlando della maglia biancoscudata. In tutto il suo candore. E con l'effigie che la caratterizza: lo scudo sul petto. Hegel, nella sua indagine storico-filosofica, chiamava weltgeist (spirito del mondo) quell'essenza spirituale che fa progredire la storia dell'umanità incarnandosi via via in vari popoli o in vari personaggi funzionali al suo obiettivo. Così fa la maglia biancoscudata con coloro che la indossano, privilegiati che dovrebbero avere il dovere di onorarla. E nonostante le avversità, il biancoscudo ha saputo sempre rialzarsi dalle difficoltà, risorgere dalle proprie ceneri come l'araba fenice, anche grazie a chi nel corso degli anni ha imparato ad amarlo. D'altra parte, se una storia dura da così tanto tempo, se l'entusiasmo delle origini è rimasto intatto, se i tifosi oggi si emozionano allo stesso modo dei loro omologhi di un secolo fa guardando quelle undici maglie bianche volteggiare sul rettangolo verde un motivo ci sarà. Ecco dunque la storia, le evoluzioni, i cambiamenti della casacca e dello scudo del Calcio Padova, dalle origini fino ai giorni nostri.
    Atto costitutivo del 29 gennaio 1910, articolo 4: “I colori dell'Associazione sono quelli della città di Padova: bianco-rosso”. E così fu. Nelle prime partite della storia biancoscudata, disputate nella primavera del 1910, infatti, la neonata squadra cittadina indossò una maglia (o meglio, una vera e propria camicia) partita di questi due colori: in una metà il rosso, nell'altra il bianco. Tuttavia, le divise non erano perfettamente uguali: alcuni calciatori portavano la parte rossa sul lato destro della camicia, mentre altri sulla sinistra. Poco male: le gare di questo periodo furono tutte amichevoli, dunque non vi era certo obbligo di perfetta identità delle maglie. Dopo questi incontri, però, l'attività sportiva si interruppe bruscamente, riprendendo con nuova linfa solamente a partire dall'autunno del 1912 per iniziativa di Gastone Rossi e dei suoi soci, che il 25 novembre di quello stesso anno avevano “rifondato” la società. Il nome del sodalizio rimase invariato, ma non i suoi colori: fino al 1920, infatti, i giocatori scesero in campo con una maglia nera fasciata di bianco per tutta la larghezza del ventre con ampio scollo a V ed elegante colletto bianco dotato di lacci neri. A dieci anni dalla fondazione della società, però, si decise di tornare alle origini ed a partire dunque dalla stagione 1920-1921 il Padova si presentò in campo con una maglia bianca bordata di rosso su maniche ed ampio colletto (sempre con lacci). Ma la vera novità fu un'altra: la prima apparizione dello scudo sul petto. Uno stemma grande, molto più di quelli visti in questi ultimi decenni, ed in tutto e per tutto simile all'ultimo logo dell'Associazione Calcio Padova 1910, in attività sino allo scorso campionato, con la sigla A.C.P. sulla metà destra dell'effigie, mentre su quella sinistra campeggiava la classica croce rossa in campo bianco, che riprende il disegno dello stemma comunale. Il risultato? Una maglia che non verrà mai più sostituita. Una maglia che scriverà la storia. Bianchi i pantaloncini e neri, come sarà sino al 1960, i calzettoni. Poche le variazioni estetiche durante gli anni '20, con la progressiva scomparsa degli inserti rossi per lasciare spazio ad una divisa tutta bianca, che dal 1927 abbandonerà il colletto con risvolto per uno più semplice con scollo a V rifinito da due raffinate righette rosse. In alcune rare occasioni, però, tra la seconda metà degli anni '20 e i primi anni '40, il Padova giocò anche con un'inedita divisa nera in omaggio al regime fascista, motivo per cui, a partire dalla stagione 1932-1933, lo stemma biancoscudato vide la comparsa del fascio littorio sopra la croce comunale ed il cambio del nome della società in Associazione Fascista Calcio Padova (A.F.C.P.), che verrà mantenuto sino al 1940. Per tornare ad ammirare il tradizionale scudo, invece, bisognerà attendere sino al 1945, anno della ripresa delle attività sportive dopo la Seconda Guerra Mondiale, che aveva visto la caduta del regime mussoliniano. Per quanto riguarda gli anni '30 e '40, l'unica variazione sulla maglia biancoscudata fu la forma del colletto rosso, ora con scollo a V, anche molto ampio, fino a metà dello sterno, ora circolare. La stagione 1947-1948, quella della promozione in Serie A dopo quattordici anni di assenza, vide il ritorno del colletto con i lacci, che verrà confermato anche per le tre stagioni successive, in massima serie, dove il Padova fece sfoggio anche di una bellissima seconda maglia rossa con le maniche bianche (utilizzata anch'essa a partire dal '47-'48) che non può che ricordare quella dell'Arsenal. Dal 1951, si tornerà poi ai classici colletti bianco-rossi, che accompagneranno il Padova durante tutta l'era-Rocco. Dalla stagione 1962-1963 (la prima dopo il ritorno in Serie B), poi, le divise biancoscudate ripresentarono ampi risvolti rossi sul colletto, che diventarono bianco-rossi nell'annata '67-'68 e totalmente bianchi la stagione successiva, rivelandosi però, questi ultimi, forieri di cattivi risultati, con la retrocessione della squadra in Serie C per la seconda volta nella sua storia. Nel frattempo, come già accennato, a partire dal 1960 i calzettoni neri erano stati sostituiti da quelli bianchi, in tinta con la maglietta. Accantonato scaramanticamente il colletto con risvolti total white e tornati per un paio di campionati a quello bianco-rosso, la maglia della stagione 1972-1973 lasciò tutti di stucco: divisa completamente bianca con colletto circolare, ma soprattutto senza stemma. Per la prima volta dal 1920. Una scelta alquanto incomprensibile da parte della società, allora guidata da Marino Boldrin. E l'assenza del logo biancoscudato si registrò anche l'annata successiva (fortunatamente per l'ultima volta), quando almeno vennero aggiunti alla maglia dei bordi rossi sul colletto e sulle maniche, che accompagnarono la squadra sino alla retrocessione in Serie C2 del 1979. La stagione successiva ci fu poi un importante cambiamento: per la prima volta, la maglietta biancoscudata portava il logo del proprio fornitore: l'Adidas. E con esso le tre caratteristiche striscette dell'azienda tedesca sulle maniche. Maniche che da bianche diventarono rosse nella stagione 1982-1983, una vera ed affascinante novità per il Padova, che a fine campionato tornerà in Serie B sotto la guida dell'indimenticato Bruno Giorgi e con il marchio “Bata” in bella vista al centro della maglietta, poiché dal 1981 la FIGC aveva liberalizzato l'esposizione di quello che oggi chiamiamo main sponsor, oltre a quello tecnico, già “legale” dal '78. E la società biancoscudata non aveva esitato a legarsi sin da subito con l'importante azienda calzaturiera padovana, che però nel 1985, così come l'Adidas, interromperà comprensibilmente il rapporto di sponsorizzazione a seguito dell'illecito di Taranto. Tornando all'aspetto prettamente estetico delle divise biancoscudate, l'avvento degli sponsor tecnici comportò una diminuzione delle dimensioni dello stemma, ma allo stesso tempo un'inedita varietà nell'aspetto delle divise di ogni stagione: nelle annate '83-'84 ed '84-'85, ad esempio, fecero la loro comparsa delle sottilissime linee rosse verticali sia sulla maglietta che sui pantaloncini. Dopo la retrocessione a tavolino, per tre stagioni lo sponsor tecnico fu NR, affiancato da Master Photo nell'annata '86-'87 e da Coelsanus in quella '87-'88, quest'ultima nuovamente in Serie B. Altre quattro stagioni in Adidas e poi ecco l'arrivo della Lotto, che, in tandem con il logo dell'acqua “Vera” (già sulle magliette biancoscudate dal 1991), porterà il Padova in Serie A, dopo il mitico spareggio di Cremona, occasione in cui i ragazzi di Sandreani indossarono la seconda maglia, rossa. Ma lo stemma non era più quello tradizionale. A partire dalla stagione 1990-1991, infatti, per iniziativa di Puggina e Giordani, il classico scudo aveva lasciato spazio ad uno più squadrettato, sempre diviso in due sezioni: identica la sinistra, con la croce comunale, rivoluzionata invece la destra, con l'inserimento del profilo bianco del cavallo del monumento equestre al Gattamelata di piazza del Santo con una palla sotto lo zoccolo sinistro. Uno stemma che accompagnerà i biancoscudati per tutti gli anni '90, venendo poi risostituito nel 2001, sotto la presidenza Mazzocco, dallo scudo tradizionale a seguito di un sondaggio indetto sui giornali. Unica differenza rispetto al passato: la parte destra riportava l'intera dicitura “Calcio Padova 1910”, dopo quella “C.Padova” vista negli anni '70 (a seguito delle due stagioni di assenza dello stemma, per intenderci) e quella “C.P.” dei primi tempi griffati Adidas. Detto dunque del ritorno in Serie A dopo trentadue anni con le divise Lotto, dal 1995 al 1999 il Padova di Viganò precipiterà repentinamente sino alla Serie C2 con le maglie Diadora, che vennero poi sostituite dal marchio Biemme nei due anni di permanenza in quarta serie. Una volta tornati in Serie C1, sette anni con Macron e poi, nell'estate del 2008, il ritorno alla Lotto, che si confermerà nuovamente marchio portafortuna, con la promozione del Padova in Serie B al termine della stagione. Tra le variazioni estetiche più rilevanti di questi anni c'è da citare la seconda maglia prodotta dalla Diadora tra il '95 ed il '97 di color blu con il profilo bianco del cavallo del Gattamelata (lo stesso dello stemma) sul lato sinistro della divisa, e la maglia usata nel girone di ritorno del campionato di Serie C1 2002-2003, con la ricomparsa di quelle maniche rosse che esattamente vent'anni prima tanto bene avevano portato al Padova nella conquista della Serie B. Un traguardo che per poco non venne replicato da Ginestra e compagni, sconfitti ai playoff dall'Albinoleffe. Tra il 2006 ed il 2008 poi, sul lato destro della divisa biancoscudata (che già del 2004 esibiva lo scudo al centro del petto) fece capolino la croce rossa comunale. Ma la maglia più indimenticabile di questi ultimi anni è senza dubbio quella giallo fluo indossata dagli uomini di Sabatini a Busto Arsizio il 21 giugno del 2009 e riproposta la stagione successiva in occasione della gara di ritorno dei playout di Serie B contro la Triestina al Nereo Rocco. Due pagine felici della storia biancoscudata, con una maglia alla quale tutti i tifosi padovani sono ancora affettivamente legati. Dopo un'ultima, emozionante annata in Lotto conclusasi con la sconfitta in finale playoff per mano del Novara, ecco l'arrivo di Joma, che in queste ultime due stagioni ha riproposto il colletto con i lacci che non si vedeva dal 1951 e la seconda maglia stile Arsenal degli ultimi anni '40, oltre ad altre divise gialle e nere (altro richiamo, chissà se voluto o meno, alla tradizione). Eccoci dunque arrivati all'ultimo capitolo di questo excursus, con la costituzione, lo scorso 24 luglio, della SSDRL Biancoscudati Padova, società che ha raccolto l'eredità dell'Associazione Calcio Padova 1910 non iscrittasi al campionato di Lega Pro. In attesa di recuperare (“Magari in una categoria più consona”, Bergamin dixit) il vecchio logo, sulle nuove maglie griffate Macron (già sponsor tecnico del vecchio sodalizio tra il 2003 ed il 2008), presentate dieci giorni fa, compare il nuovo stemma biancoscudato, molto simile allo scudo tradizionale: sulla parte orizzontale della croce comunale vi è la scritta “Biancoscudati”, che prosegue sul lato destro con “Padova”, a completare il nome della nuova società. Una realtà tutta padovana che, al momento, sta viaggiando a vele spiegate verso la Lega Pro per tornare a dare un po' di lustro ad una maglia che è stata troppo calpestata in questi ultimi anni, ma alla quale nessun personaggio potrà mai impedire di tornare grande.
     
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    Il caso Azzini del 1958: cronaca di un'evitabile combine di fine stagione
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    20.10.2014 15:34 di Alessandro Vinci

    Chi è senza peccato, scagli la prima pietra. Purtroppo, il celebre motto evangelico può calzare anche al Padova dei record della stagione 1957-1958, quello del terzo posto in Serie A. Come mai? A causa di una bricconata commessa da uno dei suoi pilastri: Renato Azzini, detto Giovanni. E' domenica 30 marzo 1958. Il Padova, che aveva ormai accantonato i sogni-scudetto ed occupava il secondo posto in classifica a meno sei punti dalla Juventus capolista a nove giornate dal termine (le vittorie, si ricordi, valevano ancora due punti), si appresta ad ospitare all'Appiani un'Atalanta invischiata nei bassifondi della classifica in piena bagarre-salvezza. Gli orobici, infatti, alla vigilia del match contro gli uomini di Rocco, occupavano la penultima piazza a quota 19 punti, ex aequo con la Sampdoria, ad una sola lunghezza di vantaggio dal Genoa fanalino di coda. La Coppa Uefa era ancora di là da venire (nascerà solamente tredici anni più tardi, nel 1971), poco male dunque perdere punti in graduatoria per Scagnellato e compagni, che però, sino a quel giorno, non avevano mai permesso a nessuno di espugnare la “fossa dei leoni”, nemmeno per magnanimità nei confronti di un avversario bisognoso di punti preziosi. Eppure l'Atalanta ci riuscì. E per ben 3 a 0, con gol di Ronzon e doppietta di Zavaglio. Una salutare boccata d'ossigeno per i bergamaschi, che guadagnarono due punti pesanti sulle genovesi, entrambe uscite sconfitte dai rispettivi incontri. Ma il sabato successivo ecco il colpo di scena: la Sampdoria ed il Verona (squadra nel frattempo raggiunta in classifica dall'Atalanta) si presentano di fronte alla Commissione di Controllo della FIGC riportando una voce secondo la quale la gara dell'Appiani sarebbe stata truccata, adducendo come testimone dei fatti l'indossatrice Silveria Marchesini, la quale altro non era che l'ex fidanzata del panzer Giovanni Azzini, membro ormai di lungo corso della linea maginot biancoscudata. La donna, adirata con quest'ultimo a seguito di un litigio avvenuto in settimana (c'è chi dice a causa di una mancata promessa di matrimonio), confessò di aver assistito alla pianificazione della combine della gara in questi termini: il lunedì antecedente al match, lunedì 24 marzo, Bepi Casari, ex portiere sia dell'Atalanta (1944-1950) che del Padova (1953-1956) ormai ritiratosi dal calcio giocato, ma ancora in contatto con la dirigenza bergamasca, avrebbe incontrato presso un distributore di benzina in Via Piave a Brescia il famigerato faccendiere Eugenio Gaggiotti, figura arcinota alla Commissione FIGC poiché già coinvolto in numerosi illeciti calcistici negli anni precedenti. I due, dopo una breve chiacchierata, si sarebbero poi diretti verso il ristorante “Tre Camini” di San Zeno al Naviglio, sobborgo della città lombarda, dove avrebbero cenato con lo stesso Azzini, architettando così la combine, che sarebbe poi stata perfezionata a fine serata a casa della stessa Marchesini, che abitava proprio di fronte al distributore di benzina di via Piave. Ed in effetti, la prestazione di Azzini la domenica successiva lasciò proprio a desiderare, segnata da inconsueti e grossolani errori che permisero a Zavaglia, uomo da marcare, di siglare una doppietta. L'avvocato Cesare Bianco venne dunque incaricato dalla Commissione di fare luce sul caso. Il processo ebbe inizio il 28 giugno successivo e si protrasse sino alla mezzanotte della sera seguente, quando il campionato era terminato da ormai un mese ed aveva visto l'Atalanta chiudere al penultimo posto, a quota 26 punti. Secondo il regolamento dell'epoca, l'ultima classificata della Serie A (in questo caso il Verona) sarebbe dovuta retrocedere direttamente in cadetteria, mentre la penultima avrebbe dovuto disputare uno spareggio-salvezza contro la seconda classificata della Serie B: il Bari, in questo caso. Una sorta di sistema “alla tedesca”, per intenderci. In attesa dell'esito del processo, nell'ambito del quale l'Atalanta era accusata di responsabilità oggettiva (che all'epoca dei fatti poteva comportare la retrocessione), si optò quindi per programmare lo spareggio per il mese successivo: se gli orobici fossero stati assolti avrebbero giocato contro i galletti, in caso contrario, lo avrebbe fatto il Verona. Poteva dormire invece sonni tranquilli il commendatore Bruno Pollazzi, poiché il suo Padova (nel frattempo arrivato terzo, alle spalle della Fiorentina, per un solo punto) non era stato neppure indagato nell'inchiesta in quanto non al corrente delle presunte malefatte del proprio giocatore. Per quanto riguarda lo svolgimento del processo, Azzini e l'Atalanta sembrarono inizialmente venire messi spalle al muro dalle dichiarazioni della Marchesini e da quella di Pietro Torosani, proprietario della pompa di benzina di via Piave, spuntato improvvisamente come secondo testimone, che confessò di aver assistito a gran parte delle conversazioni avvenute tra Gaggiotti e Casari presso il suo impianto e di aver persino giocato una schedina con lo stesso faccendiere con il 2 fisso su Padova-Atalanta due giorni più tardi. Casari e Gaggiotti, che inizialmente avevano respinto le accuse, ammisero quindi di essersi incontrati quella sera, ma solo da amici, per vicende extracalcistiche. Azzini invece, continuò sempre a negare l'accaduto. Ma le parole di Torosani avevano ormai convinto i giudici che l'incontro non fosse stato casuale, come sostenevano i tre interessati. A quel punto, però,gli avvocati dell'Atalanta dimostrarono con un colpo di coda che i due testimoni sui quali si fondava l'impianto accusatorio avevano proferito le loro dichiarazioni sotto lauto compenso in denaro. Nello specifico tre milioni e mezzo da parte della Sampdoria alla Marchesini (fatto poi confermato da Augusto Crovetto, legale blucerchiato) e settecento mila lire, un appartamento in affitto ed un impiego a Milano da parte del Verona per il Torosoni, nel frattempo licenziato dal distributore di benzina (ed anche in questo caso arrivò la confessione da parte della società interessata, nella persona del dottor Carlo Bonelli). La situazione era chiara ma spinosa: l'impianto accusatorio aveva una sua coerenza, ma le testimonianze erano state dettate da una ricompensa in denaro, non propriamente una garanzia di trasparenza. Questa la decisione finale della Commissione: condanna sia per Azzini, al quale fu ritirata a vita la tessera FIGC, che per l'Atalanta, declassata all'ultimo posto in campionato e retrocessa d'ufficio in Serie B, oltre ovviamente a Casari e Gaggiotti, non perseguibili però dalla giustizia sportiva in quanto non tesserati (e nemmeno da quella ordinaria, poiché il reato di frode sportiva non esisteva ancora). Queste le motivazioni dell'avvocato Bianco a seguito della condanna: “È vero che i testi del caso-Azzini sono stati pagati, ma ciò non significa in linea giuridica che le loro deposizioni debbano finire nel cestino della carta straccia. Taluni fatti, come quello del convegno tra Gaggiotti e Casari al distributore di benzina, prima di raggiungere Azzini alla trattoria dei Tre Camini, sono stati provati”. Al contrario, da par suo, Azzini non esitò a manifestare il proprio sgomento: “Non è lecito infamarmi gratuitamente sulla base di testimonianze comprate. La sentenza mi ha lasciato di stucco. Persino il PM (l'avvocato Bianco n.d.r.), dopo che abbiamo portato le prove che le testimonianze a carico erano state pagate, si è trovato imbarazzato nel sostenere l'accusa. Casari, tutti lo sanno, è mio amico. Quanto a Gaggiotti lo conoscevo come un soggetto un po' strambo e cercavo di evitarlo il più possibile. Quella sera maledetta è capitato alla trattoria da solo e non è stato invitato da me. Per non parlare poi di Torosani: quel tipaccio è venuto a casa mia a patteggiare! Mi ha detto: “Quelli del Verona mi hanno offerto due milioni (ma in realtà erano, come già scritto, settecento mila lire n.d.r.), un appartamento in affitto ed un nuovo impiego. Tu cosa mi offri?” L'ho mandato al diavolo. La verità non si paga”. A seguito della sentenza, Azzini e l'Atalanta fecero subito ricorso alla Commissione d'Appello Federale. Un ricorso che però fu respinto in entrambe le istanze il 13 luglio successivo. Tutto rimase dunque invariato: Atalanta in B e Azzini squalificato a vita. Il giocatore biancoscudato però non ci sta. E' convinto della propria innocenza e continua la sua battaglia legale. Risultato? Ad oltre un anno e quattro mesi dallo svolgimento del processo, il 3 novembre 1959, la stessa CAF ridusse a due anni il periodo di squalifica del patavino, permettendogli così di poter tornare “in gioco” al termine della stagione allora in corso, il 13 luglio 1960. Contestualmente, l'Atalanta, nel frattempo ritornata in Serie A dopo un solo anno di purgatorio, venne prosciolta dall'addebito di responsabilità oggettiva. La società bergamasca, in parole povere, non poteva essere stata al corrente della combine, la cui effettiva riuscita, dunque, rimaneva ancora plausibile. Come interpretare quindi lo sconto di pena concesso ad Azzini? Se l'illecito non fosse mai esistito, allora la condanna sarebbe dovuta essere cancellata del tutto, in caso contrario confermata. La “via di mezzo” dei due anni potrebbe risultare dunque una sorta di “perdono” da parte della CAF nei confronti di Azzini. Ma queste sono solamente supposizioni. Il roccioso giocatore biancoscudato, ad ogni modo, tornerà al suo posto nella retroguardia dei panzer e collezionerà altre 65 presenze all'ombra del Santo, andando poi, a seguito della retrocessione in Serie B del Padova datata 1962, a chiudere la carriera al Brescia, società nella quale era cresciuto calcisticamente e tra le cui fila era rimasto sino al 1955.
    Morale della favola? Sarà stato più genuino ma, cari lettori, il calcio di una volta non era certo più pulito di quello odierno.
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    "Il cuore dei tifosi conta più della categoria": la promozione in Serie C1 della stagione '80-'81
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    27.10.2014 16:12 di Alessandro Vinci

    E con quella maturata ieri ad Arzignano, fanno otto vittorie su otto partite giocate, per un totale di 24 punti. Al Padova di mister Carmine Parlato, unica squadra italiana ancora a punteggio pieno, non si poteva proprio chiedere di meglio. Per i biancoscudati la rincorsa alla Lega Pro è dunque partita nel migliore dei modi, accompagnata da un entusiasmo straordinario e, per certi versi, inaspettato, da parte dei propri tifosi. 3511 abbonamenti sottoscritti, presenze in continua ascesa allo stadio Euganeo (ben 5729 otto giorni fa, contro il Belluno), invasioni da tutto esaurito nei piccoli impianti di provincia in occasione delle gare esterne. Sì, si respira aria nuova. E sono in molti a paragonare il clima attuale con quello che si viveva durante la stagione 1980-1981, primo dei due precedenti in cui il Padova passò dalla quarta alla terza serie (il secondo fu nel 2000-2001). Sperando dunque che l'epilogo del campionato sia il medesimo, che questo racconto sia di buon auspicio per Cunico e compagni.
    Estate 1980. A Padova c'è ancora amaro scoramento per la mancata promozione in Serie C1, sfumata nello spareggio del Bentegodi contro il Trento al termine della stagione appena conclusasi. Scoramento che si trasforma però in immediata voglia di riscatto. D'altra parte, già il giorno successivo alla sfida di Verona, il presidente Pilotto aveva promesso apertis verbis ai tifosi biancoscudati la conquista della Serie B nel giro di tre anni. Meglio iniziare a darsi da fare da subito, dunque. Squadra che vince (o meglio, che sfiora la promozione) non si cambia: ecco perché l'ossatura titolare viene largamente confermata, tanto che alla prima di campionato, il 28 settembre, gli unici volti nuovi che compaiono nell'undici di partenza scelto dal riconfermatissimo Guido Mammi sono quelli di Andreuzza, esperto stopper prelevato dalla Ternana, Lancetti, libero ex S.Angelo Lodigiano, e quello di un certo Fabrizio De Poli, centrocampista padovano DOC proveniente dalla SPAL. Oltre ai loro, figurano nella lista degli arrivi del ds Pastorello anche i nomi di Antonio Bardin, Antonio Brunello (entrambi ancora dalla SPAL) e Osvaldo Zobbio. Il campionato può dunque iniziare, non prima però di aver superato in scioltezza il girone di qualificazione per la fase finale della Coppa Italia Semiprofessionisti (competizione vinta il giugno precedente) contro Adriese e Treviso. La prima giornata porta subito i frutti sperati, ossia i due punti, conquistati senza affanno sul campo della neopromossa Osimana grazie ad una doppietta di Cesare Vitale e ad una rete di “Cina” Pezzato. Per la cronaca, assente in panchina in quanto squalificato sino al 30 novembre mister Mammi, reo di aver insultato pesantemente un guardalinee durante la gara di ritorno della finale della Coppa Italia della stagione precedente. Al suo posto, a bordo campo, il segretario Giovanni Ballico. La tranquillità che regna in casa biancoscudata grazie al buon avvio di stagione viene però turbata il venerdì successivo, quando Romanzini e De Poli, di ritorno dall'allenamento, rimangono coinvolti in un incidente stradale che le cronache dell'epoca definirono “pauroso”. Trasportati prontamente all'ospedale di Camposampiero, il primo se la cava con una prognosi di venti giorni a causa di un trauma cranico con annesse ferite alla testa, mentre il secondo, oltre a varie contusioni, rimedia una lussazione all'anca sinistra ed, anch'egli, un trauma cranico. All'indomani dell'incidente, i medici sociali biancoscudati prospettano addirittura la possibilità dell'anticipata conclusione della stagione agonistica per l'ex centrocampista spallino, che però tornerà in campo in gare ufficiali già il 26 aprile successivo, a sei giornate dal termine del campionato. Un campionato che vede i biancoscudati bissare il successo dell'esordio contro il Chieti all'Appiani specialmente grazie ad un super Giacomo Perego, autore di tre delle quattro marcature che permettono al Padova di rimanere in vetta alla classifica. Una posizione che purtroppo verrà presto abbandonata in seguito alle successive sconfitte subite contro Mestre prima e Teramo poi. La gara interna del 26 ottobre contro un'Adriese partita in maniera balbettante sembra capitare a fagiolo per tornare sui giusti binari per Pezzato e compagni, che vanno a vincere per 3 a 1 e tornano a scalare posizioni in classifica. Ma anche questo sarà un fuoco di paglia. La sconfitta di Mira e il successivo pareggio interno contro il Pordenone, con la squadra a metà classifica, inducono l'ambizioso Pilotto ad esonerare Mammi, rimpiazzandolo con Mario Caciagli, la stagione precedente alla guida della SPAL in Serie B, e già allenatore di alcuni calciatori biancoscudati come Idini e Pazzato, oltre ai neoarrivati De Poli, Brunello e Bardin, con quest'ultimo che spodesterà Gennari dal ruolo di portiere titolare. Il cambio di guida tecnica vede subito maturare uno scialbo 0 a 0 in quel di Città di Castello, a seguito del quale il nuovo tecnico commenta preoccupato: “Mamma mia, dove mi sono cacciato...”. Fortunatamente, non bisognerà attendere molto per l'arrivo della prima vittoria della nuova gestione, che maturerà all'Appiani sette giorni più tardi con un avvincente 3 a 2 ai danni della Vis Pesaro. Pareggio in trasferta, vittoria in casa. Un copione che, strano ma vero, si confermerà (quasi) immutabile anche nelle successive diciotto giornate, il che, in era di due punti a vittoria, non è mica male. Uniche eccezioni sul tema: il pareggio interno del 21 dicembre contro la Civitanovese, al quale rimediò la successiva vittoria ottenuta sul campo del Lanciano, ed il successo del 1 marzo sul campo dell'Adriese, fanalino di coda. A sette giornate dal termine dei giochi, il Padova si trova primo in classifica a quota 38 punti (ex aequo con la Civitanovese) a più due sul terzo posto, sinonimo di permanenza in quarta serie, ed eliminato dalla Coppa Italia ai quarti di finale dall'Arezzo, squadra che poi andrà ad aggiudicarsi il trofeo. In programma per il ventottesimo turno c'è il derby del Penzo contro il Venezia, squadra che navigava tra le tranquille acque del centro-classifica. La fame del Padova ebbe la meglio: 1 a 0 il finale, con rete decisiva siglata ad un quarto d'ora dal termine dal terzino goleador Costantino Idini. Nel frattempo, la Civitanovese era incappata in un brusco pareggio interno contro la modesta Osimana. Per il Padova è dunque il ritorno in vetta alla classifica. Stavolta in solitaria. I tifosi iniziano a vedere la luce alla fine di quel tunnel chiamato C2, tanto più volgendo il pensiero alla partita in programma sette giorni più tardi all'Appiani, contro un Monselice impelagato nelle zone basse della classifica. Gli uomini di Caciagli non tradiscono le aspettative e conquistano l'ottava vittoria interna consecutiva (ah, i bei tempi dell'Appiani...) imponendosi perentoriamente sui “cugini” biancorossi per 4 a 0, con doppiette di Pezzato e di Berti. Alla vigilia del big match di Civitanova in programma per il turno successivo, domenica 10 maggio, il Padova domina la classifica dall'alto dei suoi 42 punti, seguito a ruota dalla stessa squadra marchigiana a quota 40, e dal tandem Mestre-Maceratese a 39. Una vittoria significherebbe mettere un piede in Serie C1. I tifosi lo sanno bene, per cui non esitano ad organizzare il primo treno speciale da trasferta in direzione di Civitanova nel quale si accomodano oltre 1000 supporters biancoscudati, i quali già due anni prima, nel 1979, avevano dato vita alla prima esperienza di tifo ultras organizzato con la fondazione del club “Magico Padova” (che nel settembre successivo cambierà denominazione in “Leoni della Nord”), capeggiato dal celebre “Sivori”. Il supporto dei tifosi però non basta per tornare a casa con i due punti in saccoccia, anzi, il Padova subisce la prima sconfitta di campionato della gestione Caciagli dopo ben ventidue gare. Decisiva si rivela infatti la rete siglata al 52' da Zorzetto, che permette ai suoi di riacciuffare Pezzato e compagni in vetta alla classifica a quota 42, seguiti a quota 39 da Mestre e Maceratese, rispettivamente sconfitte da Vis Pesaro e Monselice. Come se non bastasse, nel tragitto di ritorno, il treno biancoscudato si guastò, facendo ritorno nella città del Santo solamente alle quattro di mattina del giorno dopo. A quattro turni dal termine del campionato, il Padova non può lasciarsi sfuggire un'altra promozione in extremis. Caciagli ed i tifosi suonano la carica ed i biancoscudati ottengono punteggio pieno nelle successive due giornate, in casa con il Lanciano prima (1 a 0, con gol di Zobbio) ed a Cattolica poi (2-0, reti di Zobbio e Pezzato). Sfortunatamente, Civitanovese e Maceratese non sono da meno. Le gerarchie in vetta alla classifica rimangono dunque le medesime: Padova e Civitanovese al comando con 46 punti, Maceratese al terzo posto con 43. Ed ecco il segno del destino: all'Appiani, alla penultima giornata, è in programma proprio Padova-Maceratese. E' una finale per gli uomini di Caciagli. Una finale con due risultati utili su tre. Se non si perde, si torna in C1. Il 31 maggio 1981 l'impianto di Via Carducci è un catino bollente, pronto ad esplodere di gioia con tutti i suoi oltre 18000 tifosi (di cui ben 15944 paganti), per un tutto esaurito da brividi nell'impianto di Via Carducci. La gara si mette subito bene, benissimo per Pezzato e compagni, che aprono le marcature già al 14' con Giacomo Perego, che al 58' siglerà il bis portando in doppio vantaggio i biancoscudati. Ormai è quasi fatta, occorrerebbe subire tre gol per non festeggiare la promozione. In ogni caso, Zobbio sceglie di chiudere ogni discorso al 65', regalando il terzo gol di giornata al pubblico dell'Appiani. Può scattare la festa, poco importa se la Maceratese si porta sul 3 a 2 ad un quarto d'ora dal termine. Il Padova, dopo due emozionanti stagioni in Serie C2, rientra dunque ufficialmente in terza serie, tornando a festeggiare una promozione dopo ben ventisei anni. La festa dilaga con entusiasmo contagioso fino a tarda notte, i tifosi colorano di bianco e di rosso il centro cittadino, portando in trionfo i giocatori biancoscudati, che per giorni e giorni sono impegnati in incontri istituzionali con le varie autorità cittadine, desiderose di complimentarsi con loro per il traguardo raggiunto. Il pareggio della settimana successiva in casa dell'Anconitana rimane buono solamente per le statistiche ed il Padova conclude così il campionato al primo posto a quota 49 punti (a più due sulla Civitanovese, anch'essa promossa in terza serie), riuscendo a fregiarsi del secondo titolo in due stagioni. Ma le soddisfazioni non finiranno qui: solo due anni più tardi, infatti, il biancoscudo tornerà in Serie B, come promesso da Pilotto. Niente male come tabella di marcia, no, presidente Bergamin?
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    Gol e trionfi di Nanu Galderisi, giocatore biancoscudato del secolo
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    03.11.2014 15:36 di Alessandro Vinci

    “Dai, vieni qui che andiamo su”. Non servì aggiungere altro. Le parole di Piero Aggradi gli bastarono per accettare l'offerta biancoscudata. “Quel che volevo era giocare, ho deciso al volo. Pensavo di essere di passaggio a Padova, invece poi ho finito per legarmi a questa città”. A parlare è Giuseppe “Nanu” Galderisi, eletto nel 2010 “giocatore biancoscudato del secolo” dai suoi ex tifosi in maniera pressoché plebiscitaria. E solamente tale dato basterebbe per comprendere l'importanza che questo campione ha avuto nella storia del Calcio Padova. Sette stagioni, centottanta presenze impreziosite da quarantanove reti in campionato, una promozione in Serie A regalata al Biancoscudo dopo trentadue anni di assenza ed un posto a vita da titolare nei cuori di chi, sugli spalti, quegli anni li ha vissuti in prima persona. No, questi ricordi non sbiadiscono. Non sbiadiranno mai. Perché Nanu, nella città del Santo, è di casa: “Prima o poi il Padova lo allenerò. Cari tifosi, vi ci riporto io in Serie A”, aveva dichiarato nel 2010 al compianto Furio Stella. “Mai vista una città così piena di passione ed amore. E poi la gente, il boato che si alzava all'Appiani quando puntavo l'avversario: Na-nu, Na-nu...”. E pensare che quegli stessi tifosi, nell'ottobre del 1989, non erano stati propriamente entusiasti del suo acquisto, giudicandolo un calciatore entrato ormai nella fase calante della propria carriera, anche a causa degli infortuni che lo avevano colpito nelle precedenti stagioni. Si dovettero ricredere ben presto, appena lo videro calciare i primi palloni in allenamento e mettere a segno la prima marcatura a sei minuti dal fischio d'inizio della sua gara d'esordio in biancoscudato contro l'Ancona, su rigore. Insomma fu amore a prima vista. Un po' quello che accadde dodici anni prima a Cestmir Vycpàlek, quando, dopo averlo visionato tredicenne in un provino, non ci pensò due volte a metterlo sotto contratto con la Juventus. Genio precoce, come tutti i grandi, il buon Nanu: nato a Salerno il 22 marzo del 1963, ma cresciuto sino all'età di undici anni a Trecasali, in provincia di Parma, dopo essere ritornato in Campania entra a far parte delle giovanili del Vietri-Raito, società con cui esordisce in prima squadra in Promozione a tredici anni (!) e con cui ha la possibilità di effettuare vari provini con i top clubs italiani. Ecco dunque, nel 1977, il suo passaggio alla Vecchia Signora, nel cui vivaio metterà a segno quasi duecento reti, entrando nel giro delle nazionali giovanili italiane ed esordendo in prima squadra all'età di diciassette anni, il 20 ottobre del 1980, in occasione di un Udinese-Juventus di Coppa Italia. E' in questo periodo, inoltre, che gli viene affibbiato il nomignolo di “Nanu”. “Quello, per la verità, era il soprannome di Franco Della Monica, che giocava alla Juve e veniva da Vietri come me. Quando io arrivai in bianconero, lui andò via in prestito. Stessa città, stessa carnagione, mi affibbiarono anche lo stesso suo soprannome.” Ma non era tutto rose e fiori: “I primi tempi -confessa Galderisi- furono molto duri. Sentivo terribilmente la nostalgia di casa, poi gli amici mi hanno aiutato e così, poco per volta, mi sono abituato”. Ad ogni modo, nonostante le difficoltà, già al termine di quella stagione, la stagione 1980-1981, il diciottenne attaccante campano potrà formalmente fregiarsi del titolo di “campione d'Italia”, avendo fatto parte lungo tutto l'arco della stagione di quel gruppo che aveva conquistato lo scudetto, collezionando, tra l'altro, anche una presenza. Non male come prima stagione tra i “grandi”, ma la sua consacrazione avverrà nel campionato successivo, complice il famoso infortunio al ginocchio occorso a Bettega durante gli ottavi di finale di Coppa dei Campioni contro l'Anderlecht il 4 novembre, incidente che costringerà Bobby gol a saltare tutta la stagione ed a rinunciare al mondiale spagnolo dell'anno successivo. A fine campionato, infatti, i numeri di Galderisi parleranno di 16 presenze totali condite da 6 pesantissimi gol (tre dei quali siglati al Comunale contro il Milan nel giorno di San Valentino), che contribuiranno alla conquista dello scudetto della seconda stella da parte della società bianconera e metteranno qualche tarlo nella testa del CT Bearzot che però, scartata la candidatura di Pruzzo, alla fine sceglierà di portare ai Mondiali, come ventiduesimo, il cagliaritano Selvaggi. Non male per un ragazzo di nemmeno diciott'anni e mezzo. Un ragazzo che però capisce presto di dover cambiare aria. Il motivo? La concorrenza spietata della stagione '82-'83, con il rientro di Pablito Rossi dalla squalifica del totonero, quello di Bettega dall'infortunio e gli acquisti di due giocatori dalla discreta levatura tecnica come Boniek e Platini. Al termine della stagione, la Vecchia Signora chiuderà il campionato al secondo posto alle spalle della Roma di Falcao, arriverà in finale di Coppa dei Campioni uscendone sconfitta per mano dell'Amburgo, ma vincerà la Coppa Italia, competizione nella quale Nanu colleziona 6 delle sue 14 presenze stagionali ed mette a segno la sua ultima marcatura all'ombra della Mole. Nel mercato estivo, infatti, viene ceduto in prestito al Verona nell'ambito dell'affare che portò in bianconero Penzo e Vignola. Libero dalle ferree norme trapattoniane, Galderisi trova in Osvaldo Bagnoli il suo allenatore ideale, un tecnico che gli permette di dare libero sfogo alla propria rapidità ed alla propria fantasia su tutta la linea dell'attacco scaligero, dove, nella sua prima stagione, mette a segno ben 13 reti in 24 presenze, una in meno del suo compagno di reparto, un brevilineo come lui: Maurizio Iorio, che al termine del campionato, concluso dal Verona al sesto posto, passerà alla Roma. Al suo posto, per affiancare l'ex attaccante della Juventus (nel frattempo acquistato a titolo definitivo) in zona offensiva, verrà messo sotto contratto dalla società scaligera un giocatore dalle opposte qualità: il potente e possente danese Elkjaer. I due andranno a formare un coppia offensiva affiatatissima, unendo alla perfezione le loro complementari qualità tecniche. Se poi ci aggiungiamo un'ossatura di spessore alle loro spalle e l'abilità di Bagnoli nel coordinare il tutto, ecco maturare un incredibile ed inaspettato trionfo scaligero: il Verona è campione d'Italia. E Galderisi ne è il capocannoniere con 11 reti. A ventitré anni Nanu può già vantare tre scudetti. Ecco perché, dopo un'altra, mediocre stagione all'Hellas (la squadra arriverà decima e lui segnerà sei gol in campionato più quattro in Coppa Italia), Bearzot sceglie di convocarlo per i Mondiali di Messico '86. Da titolare. In terra centroamericana, infatti, giocherà dal primo minuto in tutte e quattro le partite disputate dagli azzurri (le tre del girone eliminatorio contro Bulgaria, Argentina e Corea del Sud, oltre a quella degli ottavi di finale contro la Francia), senza però trovare mai la via della rete, messo anche un po' in ombra da Spillo Altobelli, autore di quattro marcature. Dopo la non esaltante esperienza in Nazionale, Nanu cerca riscatto al Milan del neopresidente Silvio Berlusconi, che lo acquista per cinque miliardi di lire più il cartellino di Paolo Rossi. Un riscatto che però non arriverà. Solo tre risulteranno a fine stagione le marcature in rossonero. Troppo poco per guadagnarsi la riconferma. La stagione successiva eccolo passare in prestito alla Lazio, strano ma vero, in Serie B. Dai Mondiali alla cadetteria in un solo anno. Un bel salto all'indietro. Ma a Nanu questo non importa. Ciò che conta per lui sono le sfide, le motivazioni, il cuore. Tutto il resto passa in secondo piano. La squadra torna in Serie A. Le sue presenze sono trentatré. Ma la casella dei gol segnati riporta un misero numero uno. E l'anno successivo, nuovamente all'Hellas Verona e nuovamente in prestito, non andrà tanto meglio, anche a causa di vari acciacchi fisici: 4 reti in Serie A. Nemmeno mastro Bagnoli era riuscito a ravvivare la verve del suo vecchio eroe scudettato. Il che è emblematico. Il Verona sceglie di non riscattarlo, il Milan tanto meno di utilizzarlo. Sino ad ottobre Nanu è sul mercato, alla ricerca dell'entusiasmo perduto, alla ricerca di nuove sfide. Quale situazione migliore dunque di quella di una squadra in lotta per la salvezza in Serie B? Quella squadra è il Padova. L'esordio in biancoscudato di Galderisi è datato 22 ottobre 1989. Si gioca all'Appiani contro l'Ancona e, come detto sopra, Nanu impiega solo sei minuti a siglare la sua prima rete con la nuova maglia. Purtroppo però, per la cronaca, i marchigiani si imporranno per 2 a 1 al termine dei novanta minuti. Dopo un'ulteriore sconfitta patita sette giorni più tardi sul campo della Triestina, il Padova si ritrova ultimo in classifica, con soli sette punti all'attivo in dieci partite. Puggina perciò decide di esonerare Ferrari, scegliendo al suo posto, su segnalazione di Aggradi, Mario Colautti, che traghetterà i biancoscudati sino ad un anonimo ma, date le premesse, notevole undicesimo posto finale, facendo dell'Appiani la propria roccaforte (Ottoni e compagni vi perderanno una sola partita su quattordici incontri totali, contro il Foggia di Zeman). Oltre a quello dell'esordio in casa con l'Ancona, saranno altri tre i gol stagionali di Galderisi, tutti siglati nel meridione: a Reggio Calabria al ventitreesimo turno, a Messina al trentaquattresimo ed a Licata al trentaseiesimo, quest'ultimo con un delizioso pallonetto dal limite dell'area a beffare il portiere in uscita ed a regalare la matematica salvezza al Padova. Insomma, lo spirito del vecchio Nanu sembra tornato quello di una volta. Ecco perché l'Inter, campione d'Italia in carica, vuole portarlo a Milano, richiedendolo ufficialmente alla società biancoscudata. Aggradi va da Galderisi. “Ti vuole l'Inter” gli confessa. Immagina già quale sarà la reazione dell'attaccante. Ma si sbaglia di grosso. La Serie A? La Coppa dei Campioni? Macché. “Meglio titolare a Padova che riserva all'Inter alle spalle di Serena e Klinsmann” pensa Nanu. E poi ormai c'è una squadra da caricarsi sulle spalle. Una squadra che, nonostante arrivi importanti come quelli di Nunziata, Longhi e Zanoncelli, inizia il campionato in maniera addirittura peggiore rispetto all'annata precedente, racimolando soli cinque punti nelle prime nove giornate, con la miseria di un unico gol all'attivo: quello siglato da Galderisi alla seconda giornata su rigore contro l'Ancona (poi vittoriosa per 2 a 1), perfetto deja vu della rete dell'esordio dell'annata precedente. Colautti è ormai ad un passo dall'esonero, ma, con l'esordio di un'altra scommessa di Aggradi chiamata Demetrio Albertini al decimo turno contro l'Ascoli, le sorti della squadra migliorarono notevolmente, così come le prestazioni dello stesso Galderisi, che proprio contro i marchigiani regala la prima vittoria del campionato al Biancoscudo siglando la propria seconda rete stagionale, per poi replicare sette giorni più tardi con una doppietta che, sempre all'Appiani, contribuisce a stendere il Cosenza per 3 a 0. Di testa il primo gol, su rigore il secondo. Uno dei tanti siglati dagli undici metri di quella che si rivelerà essere un' emozionante ma sfortunata stagione, con il Padova che perderà la serie A al fotofinish nella fatal Lucca. Dei successivi dieci gol che l'ex attaccante del Verona metterà a segno durante il resto del campionato, infatti, la metà verranno realizzati proprio dal dischetto. Tra le reti da ricordare senza dubbio le due siglate il 9 giugno nell'indimenticabile 4-3 all'Appiani contro il Barletta e quella, purtroppo ininfluente, segnata la settimana successiva al Porta Elisa. La mancata promozione in A è un duro colpo per gli uomini di Colautti, i quali, la stagione successiva, orfani di Albertini e Benarrivo ma con un Montrone (rientrato dal prestito alla Pro Sesto) in versione super, vivranno la classica annata di transizione, con gli ormai consueti stenti di inizio campionato e con il vice-allenatore Mauro Sandreani, subentrato a Mazzia in primavera, a salvare la squadra all'ultima giornata. Magro il bottino stagionale di Galderisi, a segno in sole quattro occasioni su trentadue presenze, ma prodigo di assist per il suo compagno di reparto, il già citato Angelo Montrone, autore di undici reti. Ma la stagione successiva, la stagione '92-'93, i ruoli si invertiranno, con Galderisi che si riapproprierà dello scettro di capocannoniere della squadra con dodici reti. Perle che però non basteranno a centrare la Serie A. Confermato Sandreani in panchina (ma affiancato da Stacchini, in quanto non ancora in possesso del patentino di prima categoria), l'inizio campionato si rivela assai modesto, con dieci punti conquistati nelle prime undici giornate, ma in seguito il rendimento della squadra andrà via via migliorando, a partire dalla manita inflitta alla Ternana il 22 novembre del 1992, gara passata alla storia per via del nome del marcatore del quarto gol biancoscudato: Alessandro Del Piero. L'epilogo del campionato si rivelerà simile a quello di due anni prima: agli uomini di Sandreani sfuggirà infatti la seconda promozione in Serie A nel giro di tre anni all'ultima giornata poiché la bella vittoria in rimonta per 3 a 2 ottenuta all'Appiani contro l'Ascoli verrà vanificata dai contemporanei successi di Piacenza e Lecce, squadre più avanti in classifica, che festeggeranno quindi la promozione in massima serie. Una massima serie diventata ormai ossessione per i tifosi biancoscudati e per il loro idolo, Nanu Galderisi. Un giocatore diventato istituzione. Un giocatore che quando è motivato dà il meglio di sé. I tempi sono ormai maturi: la ricetta è quella di cambiare poco in sede di mercato e di fare dell'affiatamento e del fattore Appiani le armi principali del Padova edizione 1993-1994. Armi che si riveleranno efficacissime. Come nella stagione precedente, infatti, l'Appiani verrà espugnato una sola volta nell'arco di tutto il campionato. Ma a differenza degli anni appena trascorsi, la partenza del Padova non fu balbettante. Ed i punti iniziali si rivelarono assai pesanti al momento dei conti finali... Punti che è lo stesso Nanu a regalare al Biancoscudo, andando a segno già alla seconda giornata contro il Pisa, alla quarta contro il Pescara (incontri entrambi terminati sul 2 a 0), per poi trovare il tris la settimana successiva nell'1 a 1 che matura sul campo della sua vittima preferita: l'Ancona. Al giro di boa saranno altri cinque i gol siglati da Galderisi, di cui uno siglato contro il Cosenza e gli altri quattro realizzati con due pregevoli doppiette messe a segno contro Ravenna e Palermo, la prima con un calcio di punizione ed un tiro dal dischetto, la seconda con due reti da vero segugio d'area di rigore. A metà campionato il Padova è in zona promozione. Ed il suo bomber più ispirato che mai. Alla terza di ritorno eccolo ferire all'Appiani la sua ex squadra, l'Hellas Verona (cosa già accaduta l'anno precedente), ed alla settima stendere l'Arcireale con un'altra doppietta. A fine campionato poi, prima del glorioso spareggio di Cremona, sarà lui l'uomo della provvidenza, riuscendo a salvare con le sue reti il Padova da tre sconfitte contro Cosenza, Lucchese e Bari. Di fondamentale importanza quella siglata su rigore al San Nicola all'ultima giornata. Il motivo? Perché senza di essa il Padova avrebbe chiuso il campionato al quinto posto, a meno uno dal Cesena, e si sarebbe dunque lasciato nuovamente scappare la promozione in Serie A in extremis. Ma la missione di Nanu non è ancora conclusa. C'è da battere il Cesena nello spareggio-promozione. E lui, dall'alto della sua esperienza, non delude e sfodera una prestazione di grande cuore, fornendo, tra l'altro, a Coppola il pallone che il centrocampista romano scaglierà magistralmente alle spalle di Biato, per il gol del 2 a 1 biancoscudato. Un gol sinonimo di Serie A. Queste le parole a caldo di Nanu dopo il triplice fischio: “Erano quattro anni che aspettavo questo momento. Noi abbiamo meritato questa promozione mettendoci il cuore e l'anima. Questa è la dimostrazione che la fortuna ripaga il lavoro fatto. Ma c'è da ringraziare tutti questi tifosi che per tanti anni ci hanno seguito ed hanno sofferto insieme a noi”. Dopo sette stagioni dal suo arrivo a Padova ed a trentun anni d'età, Nanu torna dunque in Serie A. Toccherà a lui l'arduo compito di guidare l'attacco biancoscudato in questa nuova avventura. Un reparto che, nel corso del mercato estivo, registra la partenza di Montrone, spedito in prestito al Pescara, e l'arrivo, al suo posto, del giovane attaccante croato Goran Vlaovic, prelevato da Aggradi dal Croatia Zagabria (l'attuale Dinamo) e soffiato all'ultimo istante all'Ajax. Sarà lui a fare coppia con Galderisi nell'attacco biancoscudato nelle prime due giornate di campionato, che si riveleranno, però, disastrose, con le sconfitte patite contro Sampdoria prima e Parma poi, rispettivamente per 5-0 e 3-0. Otto gol subiti, zero realizzati. Così proprio non va. Sandreani sceglie quindi di cambiare qualcosa in attacco e, in occasione della gara in programma per il terzo turno contro il Torino, a Galderisi affianca Pippo Maniero. Ma anche stavolta sarà sconfitta. Nonostante ciò, dopo due giornate di stop forzato per Nanu causa problemi fisici, questo tandem viene riconfermato anche per le successive cinque giornate, complice un infortunio occorso a Vlaovic, contro Milan, Fiorentina, Foggia (gara in cui Nanu sbaglia un rigore nel corso del primo tempo), Brescia e Lazio. Con l'uscita del croato dall'infermeria, però, inizierà il periodo delle panchine per Galderisi, che in otto gare non aveva ancora trovato la via della rete. Sandreani ormai ha deciso: la coppia d'attacco titolare per il resto della stagione sarà quella formata da Maniero e Vlaovic. Ecco perché per rivedere Nanu in campo dal 1' bisognerà attendere per ben dodici giornate, quando la punta legnarese darà forfait in occasione del match interno contro il Napoli, successivamente vinto per 2 a 0 da Longhi e compagni. Altre due giornate da subentrante dalla panchina ed anche per Galderisi arriva la primavera: il 9 aprile, infatti, viene preferito a Vlaovic in occasione della trasferta di Brescia, dove metterà finalmente a segno la sua prima rete stagionale, aprendo le marcature al 3' sugli sviluppi di un calcio d'angolo battuto da Kreek che aveva visto Ballotta, portiere delle rondinelle, uscire “a farfalle”. Nanu si è sbloccato? Non proprio. Quello del Rigamonti rimarrà infatti l'unico gol che metterà a segno in campionato. Ma nelle successive tre giornate, quando viene riconfermato dal 1', il Padova inanella risultati prestigiosi: vittoria interna contro la Lazio per 2 a 0, inaspettato successo sul campo della Juve capolista (1 a 0 il finale, rete di Kreek) e pareggio interno a reti bianche contro la Roma. E guarda caso, quando Galderisi si riaccomoderà in panchina, la squadra tornerà alla sconfitta, contro il Foggia. Dopo un'ultima gara da titolare contro l'Inter all'ultima giornata, è tempo di affrontare lo spareggio-salvezza contro il Genoa al Franchi di Firenze. Da titolare. Pippo Maniero, infatti, era assente causa squalifica. Quando il Padova chiama, Nanu risponde sempre presente. La prestazione è di quelle di spessore: è lui ad imbastire l'azione che porta alla rete di Vlaovic, è lui a venire atterrato in area di rigore durante la ripresa facendo gridare al rigore i tifosi biancoscudati posizionati in curva Ferrovia, ed è lui a cercare con il massimo impegno di bucare Spagnulo durante tutto l'arco della partita. O meglio, fino al minuto numero 110, quando viene sostituito da Carletto Perrone in vista dei calci di rigore. Una scelta alquanto indecifrabile da parte di mister Sandreani, poiché il buon vecchio Nanu non era certamente meno abile dagli undici metri rispetto al suo compagno di squadra. Non sarebbe stato per niente male vederli calciare entrambi al termine dei supplementari. Ma, per fortuna, anche senza Galderisi, l'epilogo fu lieto, lietissimo. Gli anni di Nanu sono ormai trentatré, quelli da giocatore professionista ai massimi livelli del calcio italiano quindici. E poi, dopo l'impresa di Firenze c'è la possibilità di chiudere in bellezza l'esperienza biancoscudata. Galderisi si guarda intorno e, dopo aver disputato le sue ultime sette partite in biancoscudato (di cui tre da titolare) all'inizio della stagione 1995-1996, vola negli Stati Uniti insieme a Lalas per giocare nella neonata Major League Soccer con la maglia del Tampa Bay Mutiny, dove sarà compagno di squadra del mitico Carlos Valderrama e dove metterà a segno 12 reti in 37 presenze. Gli ultimi acuti di una grande carriera. Dopo un'ultima annata al New England revolution, Nanu sceglie di appendere le scarpette al chiodo per impugnare la lavagnetta da allenatore che lo porterà, in quattordici anni, dal 2000 ad oggi, ad allenare altrettante squadre di Serie C (massimi risultati le semifinali playoff disputate alla guida di Foggia e Benevento), non facendosi mancare neppure un'esperienza all'estero, la sua ultima sinora, alla guida dell'Olhanense, nella Primeira Liga portoghese. Alzi la mano chi non spera, in cuor suo, di assistere, un giorno, al ritorno di Nanu all'ombra del Santo...
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    Conosciuto quando era mister qui, veramente una gran persona!
     
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    Le alterne fortune dei nove allenatori ungheresi nella storia del Padova, quando il Biancoscudo parlava magiaro
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    10.11.2014 15:14 di Alessandro Vinci

    Esterofilia. Una critica rivolta sempre più spesso al calcio italiano. “Tempo fa non c'erano così tanti stranieri in campo” è la frase tipo. No, infatti, non ce n'erano. Specialmente prima del 1980, anno nel quale vennero riaperte ai giocatori esteri (ma solamente uno per squadra) le frontiere del Bel Paese dopo quattordici anni di nazionalismo calcistico causato dalla disfatta di Middlesbrough '66 contro la Corea del Nord. Problema attuale e legato unicamente agli atleti, dunque? Per niente. Esempio emblematico di ciò è il Calcio Padova degli anni '30 e dei primissimi anni '40, che venne allenato per undici stagioni consecutive da tecnici ungheresi, al pari di moltissime altre squadre dello stivale. Il tutto, paradossalmente, in tempi di autarchia fascista. Un'autarchia che, secondo la carta di Viareggio del 1926, riguardava anche l'utilizzo dei calciatori (ostacolo poi spesso aggirato con lo schieramento degli oriundi), molti dei quali, all'epoca, provenivano proprio dal paese magiaro. Le società italiane facevano a gara per accaparrarseli, loro, emblemi della più pura “scuola danubiana”, al pari degli allenatori loro connazionali. Esportatori professionisti di un gioco d'avanguardia ereditato dalla madre Inghilterra già negli anni immediatamente successivi alla Prima Guerra Mondiale e rielaborato nel corso degli anni in maniera del tutto innovativa: il modulo, la piramide di Cambridge (2-3-5), non cambiò di una virgola. Ma lo stile di gioco sì, eccome. Non più corsa, resistenza e fisicità, qualità proprie dei britannici, bensì tecnica, organizzazione, fraseggi palla a terra anche orizzontalmente. Insomma, un vero e proprio tiki taka ante litteram, che durante gli anni '30 troverà la sua massima espressione nel Wunderteam austriaco di Matthias Sindelar allenato da Hugo Meisl e nella Nazionale ungherese del 1938, finalista ai mondiali francesi contro la stessa Italia.
    Per trovare il primo allenatore magiaro nella storia del Padova, dobbiamo tornare al 1930. La squadra è appena retrocessa in Serie B dopo aver concluso in penultima posizione il primo campionato di A a girone unico della storia del calcio italiano durante il quale aveva visto avvicendarsi sulla propria panchina l'inglese Herbert Burgess, allenatore biancoscudato per gran parte degli anni venti, ed Aldo Fagiuoli. Il commissario straordinario Ferruccio Hellmann (factotum della società a seguito delle dimissioni di massa da parte dell'intera della dirigenza causa retrocessione), è deciso a risalire subito tra i grandi e mette sotto contratto Lajos Kovàcs, trentaseienne allenatore proveniente dallo Stoccarda con un passato anche alla guida della Triestina. La scelta si rivelerà azzeccata: non male la prima stagione, quando la squadra, dopo aver viaggiato su buoni ritmi per tutto l'arco del campionato (18 vittorie, 7 pareggi e 9 sconfitte), chiude il campionato al quarto posto, a meno tre punti dal tandem Bari-Fiorentina, poi promosso in massima serie. Da segnalare l'enorme valorizzazione del giovane attaccante Gastone Prendato, che a fine stagione si laurea capocannoniere di categoria con 25 reti, venendo poi acquistato a peso d'oro (125mila lire) dalla stessa Fiorentina in vista della A, campionato in cui già la stagione precedente il giocatore biancoscudato aveva messo a segno 10 marcature. Per un giovane che parte, ce ne sono altri tre che sbocciano: sono Mario “Pelo Rosso” Perazzolo, Annibale Frossi, “il dottor Sottile”, ed Alfredo Foni, quest'ultimi attratti dalla possibilità di unire la militanza in un'importante piazza calcistica italiana agli studi universitari nel prestigioso ateneo padovano rispettivamente in ingegneria ed economia e commercio. La stagione fu un successo: 47 punti finali e conquista di un secondo posto sinonimo di Serie A alle spalle del Palermo anche grazie ad una difesa di ferro che si rivelò la migliore di tutto il campionato con sole 26 reti al passivo. Numeri importanti anche in zona-gol, con le 17 marcature di Perazzolo, le 15 di Foni (attaccante che via via con gli anni vedrà progressivamente retrocedere il suo raggio d'azione venendo acquistato dalla Juventus nel 1934 per sostituire un mostro sacro della difesa come Rosetta) e le 9 di Frossi. Gradite sorprese, Giovanni Gravisi e Giorgio Rossi, altri membri del pacchetto avanzato biancoscudato, a segno per 13 e 14 volte rispettivamente. Insomma, il Padova è tornato in Serie A. E meritatamente. Ma il suo abile condottiero, adempiuta la sua missione, sceglie di “lasciare da grande” ed il 31 luglio la società non può che comunicare ufficialmente la risoluzione consensuale del contratto, precisando che questa stessa è stata “giusta, amichevole e senza problemi né economici né morali”. Come nuovo allenatore, viene assunto Jànos Vanicsek. Buona la sua prima stagione all'ombra del Santo: l'obiettivo è quello di ottenere una salvezza tranquilla e così puntualmente accade, con la squadra che conquista la permanenza in massima serie senza troppi patemi chiudendo il campionato a quota 28, a più sei punti sul Bari ed a più dieci sulla Pro Patria, retrocesse in Serie B. Ma la stagione successiva, purtroppo, il Biancoscudo non realizzerà il bis, complici le pesantissime partenze dei tre più cristallini talenti della squadra: Frossi, Perazzolo e Foni, pronti ormai a spiccare il volo verso i massimi palcoscenici calcistici internazionali (il primo vincerà le Olimpiadi del '36, il secondo il Mondiale del '38, il terzo entrambe le competizioni). Se ci aggiungiamo poi un pizzico di sfortuna, con il Padova che chiude il campionato al terz'ultimo posto nella prima stagione in cui quest'ultimo non basta più a mantenere la categoria, ecco maturare la seconda retrocessione in Serie B della storia biancoscudata. E nessuno immagina ancora che già la stagione successiva arriverà anche la terza. Nonostante l'esito dell'annata precedente, alla guida della squadra viene riconfermato Vanicsek, il quale però, già a seguito della terza giornata di campionato, viene sollevato dall'incarico per lasciare spazio a Giovanni Venturi, dopo aver collezionato due pareggi interni contro Spal e Catanzarese ed una sconfitta sul campo dell'Hellas Verona. Ma il cambio di guida tecnica non porta i frutti sperati: a fine stagione, infatti, il Padova retrocede in Serie C per la prima volta nella sua storia, pur essendosi classificato al decimo posto su sedici squadre totali, causa unificazione del campionato di Serie B, sino a quel momento diviso in due gironi. Nuova stagione, nuovo tecnico ungherese, ma stavolta solamente a partire dall'undicesima giornata, in quanto, durante le prime dieci, sulla panchina biancoscudata si era seduto con discreti risultati Pietro Colombati, che sino al 5 novembre ricopriva anche la carica di presidente. A raccogliere il suo testimone, Elemer Kovàcs, il quale, dopo aver esordito con un pesantissimo 9 a 0 subìto per mano del Vicenza, guidò la squadra sino ad un soddisfacente quarto posto finale, a meno quattro punti dal Venezia capolista, unica squadra promossa in Serie B. Capocannoniere stagionale della squadra: Renato Sanero, acquistato dall'Atalanta ad inizio stagione, che mise a segno 16 reti. Dopo una prima annata di Serie C, l'imperativo in vista della nuova stagione è quello di tornare in cadetteria. Perciò, come allenatore, la società si affida all'ex Vicenza Wilmas Wilhelm. Il rendimento in campionato è di primo piano ed i biancoscudati centrano l'obiettivo promozione, classificandosi al primo posto a quota 40 punti, a più sette sul Treviso secondo in classifica. Sugli scudi Sanero, che si riconferma cannoniere biancoscudato con 12 gol, Petron con 10 ed Antonio Maran con 8. Ma le soddisfazioni targate Wilhelm non sono finite: il Padova, infatti, si rivela la matricola terribile della Serie B 1937-1938 stazionando per tutto l'arco della stagione nelle zone alte della graduatoria e concludendo il campionato al quarto posto, a tre lunghezze di distanza dal trio di testa composto da Novara, Modena ed Alessandria che si giocherà la promozione in Serie A. A trascinare i biancoscudati con un totale di 16 reti, uno degli acquisti della nuova gestione-Pollazzi: Ermenegildo Orzan, che la stagione successiva saprà fare ancora di meglio superando di una rete il suo precedente score. Insieme a lui, inoltre, nell'attacco biancoscudato, si vedranno per la prima volta il velocissimo Amedeo Degli Esposti e l'enfant prodige Gino Cappello (uno dei calciatori padovani più forti di tutti i tempi: segnerà oltre 100 reti in Serie A con le maglie di Milan e Bologna e parteciperà ai mondiali del 1950 e del 1954), in rete rispettivamente in 14 e 10 occasioni. Ma questi nomi e questi numeri non traggano in inganno: il Padova conclude la stagione nell'anonimato del centro classifica e vede avvicendarsi sulla sua panchina tre allenatori: Wilhelm, Wereb (altro ungherese) e Tansini. Più o meno lo stesso esito dell'annata successiva (1939-1940), quando la squadra, allenata da Gyorgy Koszegy, tecnico ungherese da vent'anni in giro per l'Italia, chiude il campionato all'ottavo posto, ma vede la fragorosa esplosione del rendimento di Gino Cappello: medie da Cristiano Ronaldo per lui, con 29 reti siglate in 28 presenze. Naturale, a fine stagione, il suo trasferimento in Serie A, più precisamente al Milan del direttore tecnico Toni Busini (145 presenze in biancoscudato da giocatore), che lo acquista per 400mila lire, portandosi in rossonero, in prestito per un anno, anche le altre due stelle della squadra: Orzan e Degli Esposti. Il tutto in cambio dei cartellini di Carlo Biraghi, Valerio Cassani, Giuseppe Bonizzoni, Luigi Diamante, Gino Bortoletti e Riccardo Alberto Villa. Eccoci dunque giunti all'ultima stagione dell'era magiara sulla panchina del Padova: la stagione 1940-1941. Il mister è Stanislav Klein, che il 3 dicembre subentra a Koszegy alla guida di un Padova sino a quel momento dal rendimento balbettante e, nonostante le pesanti partenze di cui sopra, riesce ad ottenere un piazzamento migliore del suo predecessore, classificando la squadra in quinta posizione, ma con lo stesso divario di punti rispetto al secondo posto, l'ultimo valevole per la Serie A: 9. Per rintracciare la successiva esperienza ungherese alla guida del Padova, bisognerà attendere sino alla stagione 1947-1948, sempre in Serie B, quando Wilhelm, a partire dagli ultimi giorni del febbraio del '48, tornerà in biancoscudato dopo nove anni per affiancare alla guida della squadra la già nutrita commissione tecnica composta da Pietro Serantoni, Mariano Tansini e Gino Colaussi (quest'ultimo giocatore-allenatore), che sino a quel momento stava ottenendo grandi risultati. A fine stagione sarà trionfo: primo posto nel girone a più cinque punti sull'Hellas Verona secondo in classifica e conseguente promozione in Serie A dopo tredici stagioni di assenza. Gli ultimi allenatori ungheresi arrivarono poi negli anni '50, periodo d'oro del calcio magiaro: Béla Guttmann (futuro vincitore di due Coppe dei Campioni negli anni '60 con il Benfica) e Lajos Czeizler. Entrambi, però, non riuscirono ad incidere in maniera positiva. O meglio, con Guttmann, alla guida del Padova nella stagione 1949-1950 (in Serie A), a metà campionato si erano creati i presupposti per una stagione memorabile, con la squadra che al giro di boa era terza in classifica, ma nel girone di ritorno il tracollo fu verticale e costrinse la società a richiamare in panchina Serantoni, già alla guida dei biancoscudati nelle tre precedenti stagioni, che nelle ultime cinque giornate traghetterà Zanon e compagni verso il decimo posto finale. Czeizler invece sedette sulla panchina del Padova per sole quindici partite nel corso della Serie B 1952-1953, succedendo a Pietro Rava a partire dal quindicesimo turno, senza riuscire però a migliorare il rendimento di un gruppo che verrà faticosamente portato alla salvezza nelle ultime sei giornate da Tansini, storico responsabile del settore giovanile biancoscudato che, quando chiamato in causa, non ha mai deluso le aspettative. Nove dunque gli allenatori ungheresi che dal 1930 al 1953 si sono avvicendati alla guida del Padova con alterne fortune. In futuro, gli unici tecnici stranieri che alleneranno la truppa biancoscudata saranno gli argentini Oscar Montez (1963-1964) ed Humberto Rosa (1966-1970). E saranno anche gli ultimi. Da quarantaquattro anni a questa parte, infatti, gli allenatori biancoscudati sono stati unicamente italiani. Altro che esterofilia...

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    Kovàcs, primo tecnico magiaro
     
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    Padova due volte Campione d'Italia. Bugia? Scherzo? No, realtà.
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    17.11.2014 15:55 di Alessandro Vinci

    Padova campione d'Italia. No, non è una bugia. Nemmeno uno scherzo. E' la più oggettiva delle realtà. Campione d'Italia Primavera, beninteso. E per ben due volte. Traguardi meritatissimi per un vivaio, quello biancoscudato, senza dubbio storicamente annoverabile tra i migliori del calcio italiano. Una fucina di talenti nata sin dal principio, cioè da quel fatidico 29 gennaio 1910, i cui fondatori stabilirono in sedici anni l'età massima ed in due lire sia la tassa d'ammissione che la quota mensile per entrare a farne parte. E le soddisfazioni non tarderanno ad arrivare, prima di esse lo svezzamento calcistico del grande Silvio Appiani negli anni immediatamente antecedenti alla Grande Guerra. All'eroe biancoscudato seguiranno poi decine e decine di nomi illustri del calcio italiano: da Campioni del Mondo quali Perazzolo e Del Piero a cannonieri con più di cento gol all'attivo in Serie A come Busini e Cappello, per finire con giocatori con più di duecento presenze, sempre in massima serie, (oltre ai quattro già citati) come “Cice” Monti, Benito Sarti e Albertino Bigon. Ma anche molti altri furono coloro i quali, una volta usciti dal vivaio biancoscudato, andarono a fare carriera ad alti livelli, in alcuni casi con la maglia del Padova, in altri verso lidi diversi.

    Il primo dei due scudetti conquistati dalla Primavera (anche se più propriamente si trattava della squadra Juniores, poiché le squadre Primavera come le si intende oggi nacquero a partire dal 1962) arriva nella stagione 1960-1961, e ciò permise alla maglia biancoscudata di fregiarsi della classica coccarda tricolore riservata ai Campioni d'Italia per la prima volta nella storia della società. E scusate se è poco. Quello era il Padova di Alfonsi e Tansini, entrambi ex calciatori biancoscudati, che a partire dagli anni '40 iniziarono ad occuparsi delle giovanili della società per un'esperienza che si rivelerà ultraventennale. Una coppia veramente ben assortita, a giudicare dalle testimonianze dei calciatori da loro allenati. Tansini era una persona ordinata, precisa, signorile ed attentissima al comportamento dei suoi ragazzi, ai quali si rivolgeva sempre in italiano e dando loro del lei. Insomma un vero educatore, prima che allenatore. Il suo vice, Alfonsi, padovano DOC, invece era più “ruspante”, più sanguigno, e traduceva in dialetto veneto gli ordini del suo collega. Un tandem perfetto per guidare una squadra di giovani, come quella della stagione '60-'61, nella cui rosa figuravano futuri giocatori della prima squadra come Mario Boetto (7 presenze complessive), Carlo Zerlin (25), Rinaldo Frezza (56), Giovanni Fracon (28), Giuseppe Petranzan (3) e soprattutto, il capitano di quella squadra, Valeriano Barbiero (119). Al torneo, strutturato sulla base di fasi eliminatorie a partire addirittura da quelle provinciali, partecipavano ben 233 squadre da tutta Italia. “Nella prima fase non ci furono problemi”, ci confida Mario Boetto, il centravanti di quella squadra. “Quelle partite le vincevamo sempre con almeno quattro o cinque gol di scarto rispetto ai nostri avversari. Poi però più si andava avanti, più arrivava il difficile”. Eh sì, perché dopo aver superato in scioltezza la fase provinciale, il Padova viene inserito nel girone del nordest insieme ad altre otto compagini di Serie A e di Serie B quali Triestina, Udinese, Venezia, Hellas Verona, Treviso, Lanerossi Vicenza, Spal e Marzotto, più l'“intrusa” del girone, ossia la Mestrina, unica squadra di Serie C. Gare di andata e ritorno. “Fu una marcia trionfale” – prosegue Boetto – “vincemmo tutte le partite ad eccezione di quella interna contro il Venezia, che perdemmo per 2 a 1”. Troppo poco per impedire ai giovani biancoscudati di qualificarsi per le finali dell'Alta Italia, nell'ambito delle quali vennero inseriti in uno dei due gironi di qualificazione alle finali nazionali in compagnia del Brescia e della corazzata Inter, una squadra che poteva contare su gente del calibro di Facchetti, Mazzola e Boninsegna. Ma anche in questo caso Barbiero e compagni non delusero, continuando contro ogni pronostico la loro marcia verso la conquista del tricolore: primo posto e pass staccato per le finali di Grosseto, da disputarsi tra il 28 ed il 30 giugno del '61 nel nuovissimo stadio Olimpico Comunale (l'attuale Zecchini), inaugurato solamente l'anno precedente. Avversarie del Padova, la Pro Patria (uscita vincitrice dal proprio girone contro Genoa e Juventus) e le due rappresentanti del centro-sud, ossia il Benevento e la Roma di De Sisti. Le semifinali del 28 giugno furono incrociate e videro la Pro Patria avere la meglio sulla Roma per 1 a 0 ed il Padova sconfiggere il Benevento per 3 a 1, con rete di Zerlin e doppietta di Rinaldo Frezza, ala destra che però, quando passerà in prima squadra, giocherà sempre da interno di centrocampo. Il Padova approda dunque in finale. Contro la Pro Patria. Ad un passo da un traguardo storico. C'è fibrillazione nello spogliatoio dei giovani biancoscudati la sera del 30 giugno, poco prima dell'inizio del match. Fibrillazione che si trasforma però in sorpresa e stupore: poco prima dell'inizio delle ostilità, Tansini comunica che bomber Mario Boetto giocherà con il numero sette, da ala destra. Al suo posto al centro dell'attacco agirà Frezza. Questa dunque la formazione che scese in campo quella sera contro i bustocchi: Scarpi; Scucciari, Barbiero; Fracon, De Toni, Zurlo; Boetto, Lago, Frezza, Zerlin, Munegato. “Avevamo fatto una marachella. Sai, quando si è giovani...” - ci confida lo stesso Boetto - “Però non so se Tansini abbia operato quel cambio tattico per punirmi oppure solamente per scompigliare un po' le carte agli avversari. Forse entrambe. Fatto sta che all'altezza del quarto d'ora, Alfonsi, il suo vice, mi comunica di spostarmi nel mio ruolo naturale. Cinque minuti più tardi segnai l'uno a zero”. Il Padova è dunque in vantaggio. E successivamente arriverà anche il raddoppio dell'ala sinistra Munegato. Il Padova è Campione d'Italia. Chi l'avrebbe mai detto? “Eravamo felicissimi” – ricorda Boetto – “dopo la partita, in spogliatoio, ci guardavamo negli occhi, ma nessuno si era ancora reso conto dell'impresa che avevamo portato a termine. Iniziammo a capirlo solamente quindici-venti giorni più tardi, quando realizzammo quali squadre avevamo battuto in un torneo che comprendeva Juve, Milan, Inter e via dicendo. Ma il momento più bello fu due mesi più tardi, ad agosto, quando, in occasione del Torneo di Pescara (una competizione giovanile internazionale che si disputava ogni anno n.d.r.), indossammo per la prima volta le maglie biancoscudate con il tricolore sul petto. Ancora oggi, ad oltre cinquant'anni di distanza, mi vengono i brividi solo a pensarci. I complimenti furono moltissimi, ma purtroppo con Rocco esordire in prima squadra era praticamente impossibile. Piuttosto che far giocare un giovane avrebbe preferito schierare uno dei suoi fedelissimi anche da zoppo, nonostante noi dessimo regolarmente del filo da torcere alla prima squadra nelle classiche partitelle del mercoledì. Una volta, nel gennaio del 1960, arrivammo anche a vincere per 3 a 2: due reti le segnai io, l'altra Munegato. Ma non ci fu mai nulla da fare. Lo stesso dicasi per Mari e Serantoni nella stagione '61-'62. Gli unici giovani che Rocco in quegli anni fece giocare in prima squadra furono Sarti e Nicolè, ma solamente perché l'infermeria era piena e non si riusciva ad arrivare ad undici giocatori”. Questa dunque la sorte dei giovani biancoscudati campioni d'Italia Juniores 1960-1961, nessuno dei quali riuscirà mai ad esordire in Serie A con la maglia del Padova, anche a causa della retrocessione della squadra in Serie B datata 1962. Che ne fu di loro? Ci fu chi proseguì la carriera da calciatore tra le fila biancoscudate (i sei giocatori sopracitati) e chi migrò verso altre piazze (Munegato al Monselice, Scucciari al Rovigo, De Toni all'Enna). Chi cambiò sport, ossia Zurlo, che si diede all'atletica, e chi abbandonò presto il calcio giocato, come Lago, che proseguì l'attività di import export di famiglia, e Scarpi, che si dedicò alla fotografia. Destini diversi, ma una presenza comune nel libro della storia del Calcio Padova.

    Ma, come detto, quello del '60-'61 non fu l'unico trionfo della Primavera biancoscudata. Per assistere al secondo, infatti, basterà attendere solo cinque anni. Non molti, certamente. Ma cinque anni durante i quali ebbero luogo importanti cambiamenti, in primis quello relativo alla formula del torneo, poiché a partire della stagione 1962-1963 venne istituito l'odierno Campionato Primavera, che sino al 1969 prevedeva l'assegnazione di due titoli nazionali: uno per i campioni di categoria tra le squadre di Serie A, l'altro per quelli di Serie B. Ed i giovani del Padova rientravano proprio in quest'ultima categoria, militando la prima squadra, allenata in quella stagione '65-'66 da Montanari prima e Rosa poi, proprio in cadetteria. Inoltre, anche in seno allo stesso settore giovanile biancoscudato ci furono rilevanti novità: nell'estate del 1964, infatti, lo stesso Serafino Montanari (all'epoca allenatore della Triestina), accettò di guidare il Padova, ma solo a condizione di gestire e coordinare in prima persona l'attività dell'intero settore giovanile. Il presidente Vescovi procedette dunque a dargli carta bianca. Il 21 luglio ecco quindi l'arrivo di un'inaspettata notizia: Alfonsi e Tansini sollevati dal loro incarico per “raggiunti limiti di età” (per la cronaca, avevano rispettivamente 51 e 63 anni). Al loro posto, due giorni più tardi, vennero nominati responsabili del settore giovanile due mostri sacri come Matè e Scagnellato. Ma una volta esonerato l'ex tecnico della triestina nel gennaio del '66, ecco tornare Tansini al suo posto, alla guida delle formazioni giovanili biancoscudate, complice anche il pensionamento, l'anno precedente, del segretario della società Armando Gobbo, il cui posto venne preso da Scagnellato, mentre a Matè rimase quello di vice-allenatore della prima squadra. Il nuovo, vecchio allenatore, dunque, iniziò subito a proseguire l'ottimo lavoro svolto dai suoi due predecessori, che gli avevano lasciato in eredità una squadra di tutto rispetto. Un gruppo che poteva contare su un centrocampo ed un attacco di considerevole caratura tecnica, annoverando, fra gli altri, elementi come le ali Quintavalle (67 presenze in prima squadra per lui), Filippi (146) e Lanciaprima (34), gli interni Dal Pozzolo (95) e Lazzaretto (una sola presenza, ma era considerato dagli addetti ai lavori come un potenziale fuoriclasse), e sugli attaccanti Paolo Bergamo (45) ed Albertino Bigon (70). “Eravamo un grande gruppo” - ci confida quest'ultimo, futura bandiera del Milan nonché allenatore del secondo scudetto del Napoli maradoniano datato 1990. “C'era molto affiatamento tra noi. Io in quella stagione ormai facevo stabilmente parte del gruppo della prima squadra, quindi disputai interamente solo la fase finale del torneo Primavera. Ma, nonostante ciò, il legame che ci univa era forte, tanto forte da resistere anche oggi, a cinquant'anni di distanza. Non ricordo difficoltà nella conquista del tricolore. Scendevamo in campo tranquilli, convinti del nostro valore, giocavamo bene e vincevamo. Questo è quanto. Riguardo ad Alfonsi e Tansini, cosa dire... Sono i miei padri putativi. Mi hanno fatto crescere. Devo a loro gran parte di ciò che sono diventato, più fuori che dentro il campo. Sono loro che mi hanno instillato le regole ed i valori della squadra e del gruppo. Insegnamenti che mi sono serviti prima da giocatore, ma poi, ancor di più, da allenatore”. Sfortunatamente, i dati relativi a squadre affrontate e risultati maturati non sono giunti fino ad oggi, ma le parole di Bigon lasciano ampiamente intendere come si sia sviluppato il torneo.

    Da quarantotto anni a questa parte, purtroppo, la Primavera è rimasta a secco di vittorie. Ora come ora, con la discesa in Serie D, la formazione Primavera non esiste più, rimpiazzata per la prima volta al vertice della piramide del vivaio dalla squadra Juniores che, sotto la guida di Gualtiero Grandini, con il successo maturato ieri sul campo del Giorgione, ha ottenuto la nona vittoria su nove gare disputate in campionato. Che sia la volta buona per far tornare a sorridere il Biancoscudo non solo a livello di prima squadra, ma anche a livello giovanile?

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    Primavera 1961 con tricolore
     
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    La promozione in Serie A del 1948, quando il Padova tornò a far sorridere i propri tifosi
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    24.11.2014 15:21 di Alessandro Vinci articolo letto 97 volte

    E' il 1947. L'Italia si sta faticosamente riprendendo dalle devastazioni della Seconda Guerra Mondiale. Padova in particolare, bombardata più e più volte dalle truppe alleate, per tornare alla normalità sceglie di affidarsi anche al più grande mezzo di distrazione di massa esistente: il calcio. Dopo aver preso parte al celebre campionato di guerra del 1944 ed a quello dell'Alta Italia 1945-1946, i biancoscudati tornarono a disputare la tradizionale Serie B (categoria nella quale militavano da ormai dieci anni) nella stagione 1946-1947. Ed i risultati furono assai lusinghieri, complici arrivi di spessore nel reparto avanzato come quelli del Campione del Mondo 1938 Gino Colaussi, dell'attaccante ex Mestrina Pietro Fiore e di Charles Norman Adcock, giovane inglese scuola Aston Villa giunto in Italia proprio tra i ranghi dell'esercito di Sua Maestà: secondo posto finale nel girone A alle spalle della Lucchese, unica squadra promossa in massima serie. C'è dunque ottimismo in vista della nuova stagione, quantomeno in ottica salvezza. Un'impresa non da poco: la FIGC, infatti, aveva pianificato il ritorno alla Serie B a girone unico per la stagione '48-'49, quindi le retrocessioni per ognuno dei tre gironi da diciotto squadre sarebbero state ben undici. Ma, si sa, l'appetito vien mangiando. Non è dunque un caso che, dopo il secondo posto del precedente campionato, l'obiettivo del neopresidente Valentino Cesarin sia quello di tornare in Serie A. Ecco perché l'ossatura della squadra viene largamente riconfermata, eccezion fatta per il terzino Adone Stellin e la mezz'ala Silvio Formentin, passati al Genoa in cambio del centravanti Giancarlo Vitali. Un acquisto che si rivelerà azzeccatissimo. In più, a spalleggiare Gastone Zanon in mediana, ecco arrivare all'ombra del Santo Guido Quadri dalla Cremonese ed Elvio Matè dalla Fermana. Se ci aggiungiamo due rocce come Sforzin ed Arrighini in difesa, stiamo pur certi che il portiere Albano Luisetto poteva dormire sonni tranquilli alla vigilia di ogni gara di campionato. Alla guida della squadra viene riconfermato anche Serantoni, il tecnico dell'exploit della stagione precedente, ma affiancato da Mariano Tansini, ex calciatore biancoscudato da pochi anni tornato in società in veste di allenatore delle giovanili, e dallo stesso Colaussi, che, dall'alto della sua esperienza, va a ricoprire dunque il doppio ruolo di allenatore e di giocatore. Il tutto a formare quindi una di quelle commissioni tecniche tanto in voga tra gli anni '40 e gli anni '50. E la scelta risultò sin da subito azzeccata: esordio soft per Zanon e compagni all'Appiani contro la modesta Pro Gorizia, agevolmente superata per 4 a 1 con doppietta di Adcock e reti di Colaussi e Vitali. Sfortunatamente, questa vittoria venne poi vanificata dai successivi pareggi esterni maturati contro Prato prima e Bolzano poi, entrambi per 1 a 1. Ecco perché, all'apertura del mercato autunnale, viene acquistato l'attaccante belgradese Aleksandar Arangelovic, che si rivelerà un'efficace ma fugacissima meteora: è lui infatti a siglare una delle quattro reti con cui il Padova stende il Mantova al ritorno all'Appiani ed a replicare la settimana successiva, sempre nell'impianto di Via Carducci, quando realizza il gol biancoscudato nell'1-1 (il terzo nelle prime cinque giornate) che matura contro la SPAL. Ma dopo un'ulteriore presenza collezionata in occasione della vittoriosa trasferta di Cento (3 a 0 il finale, reti di Adcock, Colaussi e Vitali), lo jugoslavo scende in campo per l'ultima volta in campionato la settimana successiva, in quel di Piacenza, dove, complice una sua espulsione, il Padova rimedia la prima sconfitta della stagione. Un tonfo subito riscattato dal successivo tris di vittorie ottenuto contro Carrarese, Udinese e Reggiana. Dopo le prime dieci giornate di campionato il Padova viaggia dunque a quota quindici punti, secondo in classifica a meno tre dal Venezia capolista, unica squadra ancora imbattuta. E a chi andrà a fare visita il Padova nell'undicesimo turno? Eh sì, proprio ai lagunari. I quali, forti del supporto del pubblico amico, strapazzano i biancoscudati, portandosi sul 4 a 0 già dopo un'ora di gioco. E' poi Matè a siglare il gol della bandiera. La sconfitta di Sant'Elena è un duro colpo per gli uomini di Serantoni & Co., che dopo aver rimediato un pareggio-beffa all'Appiani contro il Parma, vanno a perdere anche sul campo della Cremonese, scivolando a meno quattro punti dalla vetta, per giunta scavalcati dal Verona secondo in classifica a quota 19 punti. La situazione è delicata. Occorre invertire la rotta. E subito anche. Come reagirono i biancoscudati? Trascinati da prestazioni super da parte dei propri terminali offensivi più efficaci, ossia Adcock, Fiore e Vitali, inanellarono un'incredibile serie di tredici risultati utili consecutivi, prodotto di dieci vittorie (tra le più roboanti segnaliamo il 4 a 0 ai danni del Suzzara, il 6 a 2 contro il Bolzano ed il 4 a 0 esterno sul campo della Carrarese) e tre pareggi, maturati contro Verona, Mantova e Piacenza. Nel frattempo, negli ultimi giorni di febbraio, alla già nutrita commissione tecnica si era aggiunta alla guida della squadra anche una vecchia conoscenza: Wilmas Wilhelm, già allenatore biancoscudato tra il 1936 ed il 1938, anno in cui fu costretto ad abbandonare l'Italia a causa delle leggi razziali. Ad otto giornate dal termine, il Padova si ritrova dunque al primo posto a quota 39 punti, solamente uno in più rispetto al Verona secondo in classifica, che a sua volta aveva staccato l'incostante Venezia di quattro lunghezze. Insomma, la promozione è un affare a due. Un affare che però sembra complicarsi per i biancoscudati, che nel turno successivo vengono sconfitti per 1 a 0 sul campo di una Reggiana in stato di grazia, vedendo interrompersi così la propria, lunga striscia di risultati utili consecutivi. Ma è una sconfitta che brucia il doppio, poiché, nel frattempo, il Verona, come da pronostico, si era imposto agevolmente sul Suzzara per 3 a 1 tra le mura amiche del Vecchio Bentegodi, riacciuffando così la vetta della classifica dopo due soli turni di dominio biancoscudato. Ma nulla è ancora perduto per Zanon e compagni, che rispetto alla concorrenza hanno un'arma in più: il fattore Appiani, stadio nel quale non perdevano da oltre un anno e mezzo. Sarebbe un sacrilegio infrangere l'incantesimo sul più bello. Ecco perché il Venezia terzo in classifica viene superato senza particolari affanni grazie a due reti firmate Conti e Colaussi. Purtroppo, medesimo risultato ottenne il Verona in quel di Pistoia. Ma il primo posto scaligero non verrà mantenuto ancora per molto: tempo di assistere alla sconfitta gialloblu per mano del Prato dell'ex allenatore biancoscudato Koszegy ed al contemporaneo pareggio del Padova sul campo del Parma. La situazione è tanto chiara quanto incerta: a cinque giornate dal termine Padova e Verona sono appaiate in vetta alla classifica a quota 42 punti, distanziate di sei lunghezze dal Venezia. Ed è proprio contro i lagunari che gli scaligeri dovranno vedersela la settimana successiva. La settimana del definitivo sorpasso padovano. Al Bentegodi, infatti, la gara termina sull'1 a 1, mentre Matè regala ai biancoscudati una pesantissima vittoria interna sulla Cremonese. E saranno gli stessi grigiorossi a far esplodere di gioia i tifosi biancoscudati sette giorni più tardi, quando allo Zini riusciranno ad avere la meglio sul Verona, mentre Vitali, Arrighini, Adcock, Fiore e Rolle asfalteranno con le loro reti il Treviso a domicilio. Tre giornate al termine del campionato. Sei punti disponibili. Padova a più tre sul Verona. Il trionfo è vicino. Tanto più se in programma c'è la trasferta di Suzzara, dove i biancoscudati non tradiscono i pronostici della vigilia, imponendosi sui padroni di casa per 2 a 1, con Fiore e Adcock a rimontare all'iniziale vantaggio avversario. E così, anche alla luce della contemporanea vittoria del Verona ai danni del Mantova, la settimana successiva nel fortino dell'Appiani è in programma la gara dell'anno: lo scontro diretto proprio contro gli scaligeri. Una finale con due risultati su tre utili ai biancoscudati. Se non si perde, si sale in A. L'impianto di Via Carducci ribolle di entusiasmo in ogni ordine di posto. Anche perché quello della gara non è un giorno qualunque: è il 13 giugno, Sant'Antonio. Trascinato dal supporto di diecimila tifosi, questo l'undici che scende in campo, schierato da Serantoni con il più puro “Metodo” (questo il nome di una sorta di 2-3-2-3 ideato da Vittorio Pozzo negli anni '30), che tante soddisfazioni gli aveva donato da calciatore: Agnoletto tra i pali, terzini Arrighini e Sforzin, in mediana Rolle, Zanon e Quadri, con Matè (vincitore del ballottaggio con Colaussi) e Celio a supporto del trio d'attacco composto da Vitali, Fiore (rispettivamente ala destra ed ala sinistra) e Adcock, il centravanti. La gara si rivela sin da subito tirata. Troppa la paura di perdere da parte dei biancoscudati, ai quali basta un pareggio per festeggiare la promozione. Al 2' della ripresa, ecco la fiammata: Vitali porta in vantaggio il Padova. E' ormai fatta, pensano erroneamente i suoi compagni. Infatti, ecco puntuale il pareggio veronese sei minuti più tardi con Bizzotto. Niente paura, a mettere in cassaforte il risultato ci pensano Fiore prima ed Adcock poi. Tre a uno. Triplice fischio. L'urlo dell'Appiani. Il ritorno in Serie A dopo quattordici anni. Serantoni viene portato in trionfo (e non in senso figurato), la festa contagia le vie del centro. L'entusiasmo è a livelli così alti da spingere gli stessi tifosi a formare un comitato provvisorio volto all'acquisto di medaglie d'oro ed all'organizzazione di una cena in onore di giocatori e dirigenti il martedì successivo all'ultima, ininfluente gara di campionato (1 a 1 sul campo della Pistoiese). Tra i più acclamati nell'occasione senza dubbio i due bomber della squadra: Adcock e Vitali, entrambi autori di diciassette reti in campionato. Dopo quattordici anni il Biancoscudo torna dunque in massima serie, ma soprattutto torna a far sorridere i propri tifosi dopo un periodo estremamente difficile.
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    L'incredibile finale della stagione 2010-2011: il Padova di Dal Canto sfiora l'impresa
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    01.12.2014 15:28 di Alessandro Vinci

    Rabbia, delusione, voglia di riscatto. Questi i sentimenti che regnavano sovrani in casa Padova il 15 marzo 2011, all'indomani della pesante sconfitta patita al Tombolato di Cittadella. Una sconfitta che aveva fatto deflagrare tutte le tensioni accumulatesi nei due mesi precedenti, durante i quali i biancoscudati erano precipitati dalla zona playoff al tredicesimo posto, in conseguenza di una crisi di gioco e di risultati che li aveva visti ottenere i tre punti una sola volta (in casa contro il Crotone) nelle precedenti undici partite. Al termine dei primi quarantacinque minuti, infatti, gli uomini di Calori, in doppio svantaggio, avevano perso ulteriori posizioni in classifica, ritrovandosi con soli due punti di vantaggio rispetto alla zona playout, in piena caduta libera. “Ora basta, questo è troppo”, pensò Cestaro, che irruppe nello spogliatoio dei suoi giocatori per chiedere loro spiegazioni riguardo alla situazione che si era venuta a creare, rinfacciando senza mezzi termini scarso impegno specialmente al “torello” Daniele Vantaggiato, che non ci pensò due volte ad afferrare per la spalla il presidente ed a “invitarlo”, insieme ad altri suoi compagni, a lasciare gli spogliatoi. Il giorno dopo, come prevedibile, fu rivoluzione: via Calori, dentro Dal Canto (già tecnico della Primavera biancoscudata, nonché ex difensore, tra le altre, di Vicenza, Venezia e Treviso) e Vantaggiato fuori rosa. Scelte che migliorarono esponenzialmente il rendimento della squadra, che di lì a fine stagione andrà vincere tutte le partite fuorché una: quella decisiva. Ma tutto ciò al momento nessuno può immaginarlo. Ottenere la salvezza è infatti l'obiettivo del nuovo allenatore, che, appena quattro giorni dopo la sua nomina, è chiamato ad affrontare un esordio non propriamente dei più agevoli sul campo di un Pescara affamato di punti playoff. Sembra un'altra gara dall'infelice esito per i biancoscudati, che invece, a sorpresa, espugnano l'Adriatico per 2 a 0, grazie ad una doppietta di Ardemagni, acquisto di gennaio, sino a quel giorno ancora a secco di marcature. Il cambio di guida tecnica sembra dunque aver portato i frutti sperati, ma all'orizzonte c'è lo scontro interno contro l'Atalanta capolista. Una gara che si mette subito in salita per i biancoscudati, che subiscono il gol del vantaggio nerazzurro griffato Ferreira Pinto già al 3'. Poi però Doni e compagni assumono un atteggiamento stranamente rinunciatario, che li porterà a subire il gol del definitivo pareggio biancoscudato siglato da El Shaarawy al 54'. Niente male come risultato contro i primi della classe. Un altro pareggio arriva poi la settimana successiva, quando ad Empoli il punteggio finale sarà di 2 a 2, con reti biancoscudate di De Paula (altro acquisto di gennaio, al suo primo gol con la nuova maglia grazie ad una tremenda fucilata mancina all'incrocio dei pali da venti metri) ed El Shaarawy, abile a trafiggere Pelagotti dopo una fuga di cinquanta metri sulla sinistra. Il Padova è tornato. Il pericolante Portogruaro è avvisato, ma non mezzo salvato: 3 a 1 in scioltezza il finale in favore dei biancoscudati, che ormai hanno messo la freccia verso la salvezza, avendo raggiunto il decimo posto a più sei punti sui playout. La classifica segna anche soli quattro punti di distanza dal sesto posto, l'ultimo utile in ottica playoff, ma nessuno vi bada. Non ancora. Dopo un pareggio acciuffato per i capelli nella tana del Frosinone penultimo in graduatoria, grazie ad una rete siglata al 91' da Roger Rabito (la sua ultima in biancoscudato), ecco arrivare la terza vittoria della gestione Dal Canto in occasione del derby interno contro il Vicenza, schiantato per 4 a 1 grazie ad un'autorete di Martinelli, un gol di El Shaarawy ed una doppietta di un De Paula sempre più ispirato. Puff, come per magia, il Padova si ritrova al settimo posto, a meno tre punti dal Torino sesto in classifica. Altro che salvezza! L'entusiasmo torna a contagiare l'animo dei tifosi, pronti a sostenere i propri beniamini nella trasferta di Varese, dove i biancoscudati guadagnano un punto prezioso contro i padroni di casa quarti in classifica, confermando l'imbattibilità ritrovata sotto la nuova gestione tecnica e mantenendo, tra l'altro, le tre lunghezze di distanza dal Torino, bloccato sull'1 a 1 in casa dal Piacenza. Si può continuare a sognare, tanto più se in programma all'Euganeo la settimana successiva c'è la sfida contro il modesto Ascoli, regolato senza problemi per 3 a 1, a trovare così la terza affermazione interna consecutiva ma soprattutto, al di là delle statistiche, a portarsi a meno uno dal Torino, al quarto pareggio consecutivo. Il tutto a sole tre giornate dal termine del campionato. Tre finali. E non certo semplici. Infatti la prima di esse va in scena il 14 maggio sul campo di un Sassuolo ancora bisognoso di punti-salvezza. La gara si rivela sin da subito combattuta, ma sono i neroverdi a creare le più nitide occasioni da gol della prima frazione. Cano risulta però magistrale nel salvare più volte la Patria, permettendo ai biancoscudati di prendere coraggio ed iniziare a spingere sull'acceleratore alla ricerca del gol del vantaggio. Un gol che arriva allo scoccare dell'ora di gioco grazie al solito El Shaarawy, valorizzato al massimo dal 4-3-3 di Dal Canto come esterno alto di sinistra con licenza di accentrarsi per cercare la via della rete. Di lì in poi il Sassuolo si riversa in avanti, alla ricerca del pareggio, ma dalle parti di “San”Andrea Cano proprio non si passa. Per il Padova è una vittoria fondamentale. Sfortunatamente però, ottengono i tre punti anche Torino e... Livorno. Eh sì, perché gli amaranto, dal 30 aprile, giorno della trasferta di Varese, sono appaiati in classifica al Padova. A centottanta minuti dal termine dei giochi la situazione è presto detta: Torino sesto a quota 57 punti, Padova e Livorno a seguire a quota 56. E chi dovranno affrontare Italiano e compagni nelle ultime due giornate? Sembra la trama di un film sapientemente architettata da un regista: proprio amaranto e granata. Per la sfida contro i toscani, all'Euganeo, quel 21 maggio, accorrono oltre diecimila spettatori, che assistono ad una gara definita ancora oggi da moltissimi tifosi come la più avvincente ed emozionante alla quale abbiano mai assistito. La posta in gioco è di quelle pesanti: chi perde può dire addio ai sogni di gloria ed un pareggio non accontenterebbe nessuno. Non è dunque un caso che la gara si riveli sin da subito scoppiettante, con Ardemagni che al 9' spara su De Lucia una conclusione da ghiottissima posizione, seguita pochi minuti più tardi da un miracolo di Cano su tiro ravvicinato di Danilevicius a sventare il vantaggio ospite. I due portieri continuano ad apparire insuperabili per tutto l'arco della prima frazione di gioco, con De Lucia a neutralizzare le conclusioni di El Shaarawy e Legati, mentre Cano esce ancora vincitore dal duello con Danilevicius, che al 25' incorna verso l'incrocio dei pali un ottimo pallone su cross dalla destra di D'Alessandro, plasticamente respinto dal portierone biancoscudato. Nonostante tutte queste palle-gol, le squadre rientrano negli spogliatoi ancora sullo 0 a 0. Giusto il tempo per prepararsi in vista di una ripresa che si preannuncia di fuoco e che si rivelerà epica. Un aggettivo, quest'ultimo, assolutamente idoneo anche per descrivere la parata di cui si rende protagonista Cano al minuto numero 52: insidiosa conclusione dalla distanza da parte di Dionisi (fratello dell'attuale terzino del Padova) a far rimbalzare il pallone di fronte all'estremo difensore romano, che in distensione non riesce a controllare la sfera, ma solamente a deviarla verso l'alto, proprio di fronte alla linea di porta. La palla non entra per miracolo, ma in fase di discesa sarebbe invece destinata ad entrare in gol. E qui Cano tira fuori l'istinto del numero uno (e non solo in riferimento al suo numero di maglia) e, schiena a terra, compie l'unica giocata possibile: la rovesciata, allontanando così il pericolo tra il fragore degli applausi dell'Euganeo. Ma il Livorno è purtroppo riesce a passare in vantaggio. Preludio al gol che apre le marcature è una traversa colta dal potente centrocampista Barusso con un missile dai venticinque metri a Cano battuto. Al 57' ecco infatti Danilevicius portare avanti i suoi gonfiando la rete con un mancino da posizione ravvicinata dopo aver vinto un contrasto aereo con Cesar. Ma chi di mancino ferisce, di mancino perisce. Il Padova infatti non ci sta ed a metà della ripresa è De Paula, su calcio di punizione dal limite dell'area toccatogli da Italiano, a trafiggere De Lucia con un siluro terra-aria che vale il pareggio per gli uomini di Dal Canto. Il boato dell'Euganeo è di quelli fragorosi e spinge i biancoscudati verso il gol del vantaggio, siglato all'82' da Cuffa, lasciato colpevolmente libero di calciare dai sedici metri dalla difesa amaranto. Ad otto minuti dal 90' sembra ormai fatta per i biancoscudati. Ma la doccia fredda arriva all'86', quando il solito Danilevicius anticipa tutti in occasione di una punizione dalle retrovie e realizza con “la specialità della casa”, il colpo di testa, il gol del 2 a 2. Tra Padova e Livorno a spuntarla sembra dunque il Torino, ma una gara del genere non può non concludersi con un finale thrilling. I diecimila dell'Euganeo suonano la carica, così come l'esuberante ds Rino Foschi, che all'88' viene espulso dall'arbitro Guida per proteste, allontanandosi dalla panchina sostenuto dai cori solidali dei tifosi biancoscudati. Al 91' ecco l'happy ending: Lambrughi stende ingenuamente Ardemagni in area di rigore. Guida assegna la massima punizione. E' Italiano a presentarsi sul dischetto. Il pallone è rovente. Ma lui è lo specialista. Lui è il capitano. De Lucia intuisce, ma nulla può sull'angolatissima conclusione del centrocampista biancoscudato, che fa esplodere l'Euganeo e regala al Padova la possibilità di godere di due risultati utili su tre la settimana successiva all'Olimpico di Torino contro i granata, che nel frattempo avevano pareggiato per 1 a 1 sul campo dell'Empoli. Al Padova, dunque, basta non perdere nell'ultima sfida della regular season. Mica semplice però contro una squadra definita “da Serie A” da molti addetti ai lavori e che può fare affidamento su elementi del calibro di Rubinho, Di Cesare, Ogbonna, Gabbionetta, Bianchi, Sgrigna e Antenucci (ma quest'ultimo partì dalla panchina) e supportata sugli spalti da oltre ventiduemila cuori granata. Come se non bastasse, il Padova si presenta a Torino orfano del suo diamante più prezioso: Stephan El Shaarawy, costretto a recarsi in Polonia per partecipare al girone di qualificazione agli Europei under 19 con la maglia della nazionale azzurra. Chi sarà a sostituirlo nel 4-3-3 titolare a fianco ai titolarissimi Ardemagni e De Paula? Proprio lui, Daniele Vantaggiato, al rientro in campo dopo due mesi e mezzo. A sostenere i biancoscudati sugli spalti dell'Olimpico circa duemila tifosi, per non parlare poi di quelli rimasti in città, assiepati sotto un sole cocente ai bastioni dell'Appiani, dove per l'occasione viene allestito un maxischermo per permettere loro di seguire la partita in diretta. Insomma, è tutto pronto. E' l'ora della verità. Primo tempo di marca torinista, con gli uomini di Lerda che costringono il Padova nella propria metà campo senza riuscire però, vuoi per la solidità della difesa biancoscudata, vuoi per le parate di Cano, a passare in vantaggio. Anzi, a farlo saranno proprio gli uomini di Dal Canto al 43', con la cabeza di Cuffa che trasforma in oro un calcio d'angolo dalla destra battuto da Renzetti, mandando in delirio il popolo biancoscudato e permettendo al Padova di concludere la prima frazione in vantaggio. Il Torino necessita di realizzare due gol nel secondo tempo per accedere ai playoff. Ecco perché Lerda manda in campo l'artiglieria pesante, inserendo in avvio di ripresa Antenucci al posto di Pagano. Il Toro, fedele al suo nome, carica a testa bassa, ma non riesce a risultare pungente dalle parti di Cano (ad eccezione di un colpo di testa di Bianchi a porta semivuota che termina clamorosamente sul palo al 73'), ma, al contrario, finisce per prestare il fianco alla ripartenze biancoscudate, che culminano all'80' con il gol del raddoppio, quello della sicurezza, firmato Marcos Ariel De Paula. Il Padova accede quindi ai playoff e lo fa da quinto in classifica, scavalcando per giunta in classifica la Reggina, caduta a Sassuolo. Un dettaglio non da poco, in quanto permette di affrontare in semifinale la quarta classificata, ossia il Varese, al posto del più temibile Novara. Gara d'andata in programma all'Euganeo la sera del 2 giugno, ritorno all'Ossola tre giorni più tardi. Ed alla luce del miglior piazzamento varesino, per qualificarsi in finale i biancoscudati sono costretti a segnare, nell'economia delle due gare, un gol in più rispetto ai loro avversari, non essendo in vigore né la norma dei gol in trasferta né quella dei tempi supplementari. Ben 17451 spettatori sugli spalti dell'Euganeo per la gara d'andata, che vede il primo tempo concludersi sullo zero a zero, nonostante i biancoscudati avessero creato svariate occasioni da gol, in primis con Ardemagni che, in chiusura di prima frazione, aveva stampato sulla traversa a porta vuota un colpo di testa da distanza ravvicinata su gentile concessione della difesa avversaria. E sarebbe stato un gol meritato per gli uomini di Dal Canto, che comunque non dovranno attendere ancora per molto prima di passare in vantaggio: giusto il tempo di arrivare al 7' della ripresa e di vedere l'infallibile Italiano siglare su rigore la rete dell'1 a 0. Una rete che si rivelerà decisiva, poiché il punteggio non cambierà più, nonostante i pericolosi tentativi di pareggio da parte di Ebagua, il bomber dei lombardi, e l'occasionissima del raddoppio capitata sui piedi di De Paula al 68', quando, a tu per tu con Zappino (sì, quello del famoso coro...), il brasiliano spedisce la palla contro il palo, il secondo della partita per i biancoscudati. All'Ossola basterà un pareggio per continuare a sognare. E pareggio sarà, ma quante emozioni, quanta paura! Eh sì, perché l'avvio della gara è di quelli shock per Italiano e compagni, che si trovano in doppio svantaggio già dopo un quarto d'ora di gioco a causa delle reti varesine siglate da Pisano e Neto Pereira. Fortunatamente, però, i biancoscudati rialzano la testa grazie ad un magnifico colpo di genio di El Shaarawy, talento allo stato puro, che pesca l'angolino alla sinistra di Zappino con un perfetto destro a giro dai venti metri, su servizio di Italiano. Nulla è ancora perduto. Basta solamente un gol per rimettere la gara sui giusti binari. Un gol che viene siglato, in avvio di secondo tempo, da chi meno te lo aspetti: il difensore centrale Elia Legati, sugli sviluppi di un calcio di punizione dalle retrovie. Il popolo biancoscudato festeggia, ma è una gioia effimera, poiché il Varese torna in vantaggio al 66' con “La Zanzara” De Luca. Il Padova è virtualmente fuori dai giochi. Ma la dea Eupalla non abbandona i biancoscudati, non in questa magica stagione, e si materializza sotto forma del gol del definitivo 3 a 3 siglato nuovamente da El Shaarawy al minuto numero 77. Il Padova è in finale. Sì, ma contro chi? Al rientro in città, i tifosi sintonizzano le autoradio sulla diretta di Novara-Reggina, gara iniziata con mezz'ora di ritardo rispetto a quella dell'Ossola. L'andata, al Granillo, si era conclusa a reti inviolate, ma a sorpresa erano proprio gli amaranto a trovarsi in vantaggio di un gol al Piola ad un minuto dal termine della partita. Poi, però, ecco il colpo di scena: pareggio novarese in extremis grazie ad un gran gol realizzato dal padovano Marco Rigoni con un bolide al volo da fuori area a sorprendere l'incolpevole Puggioni ed a regalare agli azzurri il passaggio del turno. Certamente non una buona notizia per il Padova, che stava già pregustando il vantaggio di giocare contro la sesta classificata. Ma questo è il bello del calcio. L'ultimo scoglio verso la Serie A è dunque rappresentato da un Novara che, seppur neopromosso, aveva messo in mostra un gran calcio per tutto l'arco del campionato, anche grazie alle qualità ed all'intesa dei suoi due temibilissimi attaccanti: Pablo Gonzalez e Cristian Bertani (che verrà in futuro condannato a tre anni e mezzo di squalifica nell'ambito del calcioscommesse relativamente alla presunta combine organizzata in occasione della gara interna contro il Siena del primo maggio precedente) a segno rispettivamente in 17 e 15 occasioni. Gara d'andata all'Euganeo la sera del 9 giugno e nuovo record di presenze. Per l'occasione, infatti, viene aperta ai tifosi, in via eccezionale, anche la gradinata est. Risultato? Oltre 21000 spettatori sugli spalti. Una cifra che non si registrava dai tempi della Serie A. Quanto sembra lontano quel 15 marzo. Chi l'avrebbe mai detto che il Padova sarebbe approdato in finale playoff? Una finale che si apre subito con un palo colpito dalla distanza da Cuffa già al 3', seguito poi da una buona occasione novarese con Gonzalez, che fa la barba al palo con una staffilata dal limite dell'area due minuti più tardi. E quando non è l' imprecisione ad impedire alle due squadre di sbloccare il risultato, a mantenere lo 0 a 0 ci pensano i due portieri, Cano e Ujkani, entrambi in versione saracinesca. Dopo un primo tempo sostanzialmente equilibrato, nella seconda frazione è il Padova a spingere di più, poiché il pareggio si rivelerebbe un risultato “stretto” in vista del ritorno per i biancoscudati. Nonostante ciò, però, è il Novara ad avere la palla-gol più nitida dei secondi quarantacinque minuti, con Cano che compie un miracolo su una conclusione a botta sicura di Gonzalez, involatosi in contropiede nel cuore dell'area biancoscudata. Le porte sono proprio stregate. Non c'è che tornare negli spogliatoi sullo 0 a 0. Un risultato sicuramente molto più favorevole al Novara che al Padova, che nella gara di ritorno, tre giorni più tardi, avrà un solo risultato utile a disposizione, la vittoria. E' l'impresa più ardua della stagione per gli uomini di Dal Canto, giunti all'ora del redde rationem. Per sostenerli, i tifosi biancoscudati fanno follie per accaparrarsi i pochi biglietti disponibili per il settore ospiti del Piola, come quella di svegliarsi ad orari improponibili (le 3, le 4) proprio nella notte successiva alla gara d'andata, per essere in prima fila all'apertura mattutina delle banche che mettono in vendita gli ambiti tagliandi. Per il Padova è l'appuntamento con la storia. C'è la possibilità di tornare in Serie A dopo quindici anni. Il modesto Stadio Piola è tutto esaurito con i suoi 11000 spettatori, di cui 1500 biancoscudati. In città, inoltre, in aggiunta al maxischermo dei bastioni, attivo sin dalla gara di Torino, ne è stato posto un altro all'interno dello Stadio Appiani, dove accorrono 2000 tifosi per assistere, seppur a distanza, alla gara. Una gara alla quale il Padova si presenta con il consueto 4-3-3, ma con una novità in attacco: a sostituire il poco incisivo Ardemagni (solo tre i gol realizzati in diciotto gare fino a quel momento per lui) nel tridente offensivo biancoscudato figura Vantaggiato. Sfortunatamente però, già da subito si intuisce che l'attacco, in serata, di palloni ne vedrà ben pochi. Il Novara, infatti, ha un importante vantaggio rispetto al Padova: la freschezza. I gaudenziani, infatti, avevano raggiunto il traguardo playoff con largo anticipo sul termine del campionato, a differenza degli uomini di Dal Canto, protagonisti di una rimonta tanto esaltante quanto faticosa. E sin dal 1' è il Novara a gestire i ritmi della gara, tenendo saldamente in mano il pallino del gioco. Al 14' ecco l'episodio-chiave della partita: fuga centrale del rapidissimo Gonzalez, “cintura” di Cesar, corretto cartellino rosso dell'arbitro ai danni del brasiliano e calcio di punizione dal limite dell'area. Dopo aver sistemato la barriera, Cano si posiziona in maniera non impeccabile, lasciando troppo scoperto il suo palo di competenza. Una distrazione che il mancino al fulmicotone di Gonzalez non perdona. 1 a 0 Novara. Il Padova è dunque in svantaggio ed in inferiorità numerica. Per non far precipitare la situazione occorre una sostituzione, impensabile giocare con un difensore in meno. Principali candidati ad abbandonare il terreno di gioco sono gli esterni alti, ossia Vantaggiato ed El Shaarawy. Chi sostituire? L'ex fuori rosa o l'artefice del miracolo biancoscudato? L'esperienza o il talento? La scelta è ardua. Alla fine, sulla scelta finale di Dal Canto probabilmente pesarono in maniera decisiva gli undici gol realizzati dal brindisino durante la gestione-Calori e le sue più spiccate qualità da seconda punta in un attacco a due. Ad abbandonare il terreno di gioco è infatti il piccolo faraone. Al suo posto entra in campo Trevisan. Una sostituzione di cui si parla ancora oggi. Ma, si sa, col senno di poi... Ad ogni modo, il Padova necessita di due gol per ottenere la promozione, ma Ujkani appare insuperabile, così come il suo omologo biancoscudato, che impedisce più volte ai padroni di casa di ottenere il raddoppio. Almeno fino al 70', quando Rigoni scappa ai difensori padovani, entra in area di rigore ed angola con precisione alle spalle di Cano il gol del 2 a 0. Poi il risultato non cambierà più. Il Novara sale meritatamente in Serie A. Nulla ha potuto il Padova contro la lucidità e la solidità evidenziate dalla banda-Tesser e così incassa così l'unica sconfitta stagionale della gestione Dal Canto. Inutile descrivere lo stato d'animo dei tifosi biancoscudati al triplice fischio, ma ugualmente prodighi di applausi e di ringraziamenti per Italiano e compagni, memori della situazione dalla quale quello straordinario finale di stagione aveva avuto origine. Le lacrime di Ardemagni a fine partita sono l'emblema della delusione del mondo biancoscudato per una mancata promozione in Serie A che, a proposito di “senno di poi”, avrebbe potuto radicalmente cambiare le future vicende della società.

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