Padova story

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. padova81
        +1   -1
     
    .

    User deleted


    Il segreto del grande Padova? "Le risate". I più divertenti aneddoti del paròn Rocco
    Flash dal passato: momenti di storia biancoscudata nella nostra rubrica del lunedì
    29.09.2014 15:03 di Alessandro Vinci articolo letto 448 volte
    06b7caf64400e4a06a59822642f65e18-70471-d41d8cd98f00b204e9800998ecf8427e
    Eh sì, oggi parliamo proprio di lui: del paròn, Nereo Rocco, l'artefice del periodo d'oro del Calcio Padova. L'epoca più fulgida della storia biancoscudata porta la sua indelebile ed inconfondibile firma. Sette i suoi anni all'ombra del Santo: dal marzo del 1954 al giugno del 1961. Per descrivere esaurientemente la vita ed i successi dell'allenatore triestino occorrerebbe scrivere un libro (cosa che, peraltro, hanno già fatto in molti, primo fra tutti Gigi Garanzini). Del paròn, personaggio inimitabile, oltre ai risultati, è rimasta nella storia quella sua genuinità, quella sua spontaneità, che ben si sposava con la sua filosofia (anche calcistica) e con la sua ironia, un elemento fondamentale dell'essere Nereo Rocco. Se aveste chiesto a Lello Scagnellato quale fosse stato il segreto del Padova dei record, lui, come del resto gli altri suoi compagni di squadra, non vi avrebbe parlato di tecnica o di tattica, né di grinta o di tifosi. Vi avrebbe parlato di risate: “Noi passavamo tutto il giorno a tenerci la pancia con le mani. Questo aveva saputo creare: il divertimento continuo. Spesso nel calcio ci si annoia a stare insieme, ad aver di fronte sempre le stesse facce. Noi invece non vedevamo l'ora di ritrovarci per scoprire cos'altro si era inventato Rocco”. Ecco dunque una raccolta di aneddoti firmati dal paròn, tutti rigorosamente in salsa biancoscudata.

    Le frasi: Di ironia, abbiamo appena scritto. Una qualità inscindibile dalla parola. Era un linguaggio tutto suo, quello di Rocco. A metà tra triestino ed italiano, ma di comprovata e tagliente efficacia. Una frase è rimasta celebre nell'immaginario collettivo: “A tuti quel che se movi su l'erba, daghe. Se xe el balon, no importa”. Ma questa frase il paròn non l'ha mai pronunciata. Ed a spiegarne il motivo a Garanzini sono Scagnellato e Rivera, gente che Rocco l'ha conosciuto bene. Così l'ex capitano biancoscudato: “Conosco questa frase, so che gli è stata attribuita ed è diventata leggenda metropolitana. Ma non gliel'ho mai sentita pronunciare. E stento a credere che possa averla detta, perché in quegli anni a Padova con Azzini, Blason, me e compagnia non era certo necessario sollecitare il temperamento agonistico della squadra. Semmai il contrario”. Sulla stessa linea l'abatino rossonero: “Una frase come questa Rocco non l'avrebbe detta nemmeno da ubriaco. Ammesso e non concesso che Rocco sia mai finito davvero ubriaco. Sarebbe stata contraria alla sua cultura, che contemplava la virilità, la forza fisica, ma non la violenza. L'ho sentito un'infinità di volte raccomandare una marcatura stretta, continua, asfissiante, ma non gli ho mai sentito dire di far male a qualcuno”. A quest'ultimo ambito si ascrive alla perfezione una raccomandazione rivolta prima di una partita contro il Milan a Gastone Zanon, che aveva l'arduo compito di marcare Pepe Schiaffino: “Ti te lo prendi in spogliatoio, no te lo moli mai, e s'el va a pissar te ghe va drio”. Ed anzi, quando, ad esempio, in un derby contro il Vicenza, lo stesso Zanon era intervenuto con troppa irruenza su Sergio Campana, all'intervallo Rocco non esitò a rimprovarare: “Ciò, te go dito de tocarlo, no de coparlo!” A chi dunque conferire la paternità di questo aforisma? A Guglielmo “Memo” Trevisan, calciatore ed allenatore triestino classe 1916 caro amico di Rocco. Mito sfatato. Passando invece alle frasi realmente pronunciate dal paròn, la più celebre è forse la seguente, rivolta ad un giornalista torinese che lo salutava dopo un'intervista alla vigilia di un Padova-Juventus: “Allora domani vinca il migliore!”. Di geniale semplicità la risposta di Rocco: “Ciò, speremo de no!” Proprio vero ciò che diceva Blason, uno dei suoi fedelissimi: “Rocco era un timido con il dono della battuta fulminante”. Per la cronaca, la partita, disputatasi il 29 aprile del 1956, terminò sull'1 a 1, con Bonistalli a pareggiare il vantaggio bianconero di Montico a dieci minuti dal termine. Celebre anche un altro episodio avvenuto con un giornalista, il quale, evidentemente disprezzando (come la stragrande maggioranza dei suoi colleghi, all'epoca), il difensivismo del Padova, chiese sarcastico a Rocco se la domenica successiva, a Bologna, la squadra biancoscudata avrebbe adottato un atteggiamento un po' più spregiudicato. E la risposta del paròn fu affermativa: “In onor suo -esordì con un leggero inchino- le prometo con solenità che domenica la vedarà tuti davanti”. Ma in Emilia il Padova ripropose il solito catenaccio con cui strappò il pari ai padroni di casa. Due giorni più tardi il giornalista si presentò all'Appiani per chiedere spiegazioni: “Tutti davanti eh, signor Rocco?” E lui: “Se capissi... Tuti davanti... A Pin (il portiere n.d.r.)!” Infine, per concludere questa rassegna delle frasi biancoscudate di Nereo Rocco, ecco un estratto di un'intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport nel 1958 che la dice lunga sui metodi di allenamento del paròn: "Ci alleniamo tutti i giorni dalle 9 alle 12 e dalle 14.30 alle 18. L'allenamento è tecnico, fisico e morale, sono per me tutti e tre alla pari. Non uso tabelle e non faccio lezioni teoriche, la mia tabella è il campo e lì, con esempi pratici, al martedì rivediamo gli sbagli fatti alla domenica".
    La soffiata giusta: Sabato sera. Rocco e Scagnellato hanno appena finito di cenare da Cavalca. Avendo famiglia, il capitano biancoscudato fa per alzarsi per tornare a casa. “Dove veto! -esclama il paròn- Stasera te vien con mi che li bechèmo.” Scagnellato inizialmente non capisce. Poi si fa tutto più chiaro: Rocco disponeva di un'ampia ed efficiente rete di informatori che controllavano gli orari di rientro dei giocatori del Padova. E quella sera aveva avuto la soffiata giusta. Attorno alla mezzanotte, Rocco e Scagnellato si presentano in Via del Santo. E sentono provenire da una finestra aperta le voci di alcuni calciatori che giocavano a carte. “Io e Rocco siamo stati a guardarci lì sotto in silenzio per dieci buoni minuti. -racconta Scagnellato a Gigi Garanzini- Non riuscivo a capire che intenzioni avesse, ma ad ogni minuto che passava le vene del suo collo si facevano sempre più gonfie. Ad un certo punto si sente una risata, il paròn alza gli occhi e vede uscire dalla finestra una nuvola di fumo. Ti resta qua, mi vado su e li copo tuti quanti, mi disse. Lo presi per il braccio al secondo gradino. Ed ebbi la sensazione che non aspettasse altro. Noi domani vinciamo -gli dissi- poi ci penso io, da capitano.” Ed, in effetti, fu esattamente quanto accadde. Il martedì successivo alla partita, Scagnellato, come al solito, prende i soldi del premio-partita ed inizia a spartirli tra tutti i componenti della squadra. Una volta arrivato il turno del gruppetto colpevole disse: “Il vostro premio è congelato, lo metto da parte. Il perché lo dovreste sapere.” Nessuno fiatò. Ecco un chiaro esempio della collaborazione e dello spirito di gruppo che il paròn aveva instaurato con i suoi calciatori, con i veci, specialmente.
    El Vulcania: Estate del '56. All'Appiani arriva dalla Sampdoria Humberto Rosa, nell'ambito dell'affare-Mori che portò all'ombra del Santo anche Mari. L'argentino si rivelerà presto un acquisto azzeccatissimo da parte del Padova e verrà inserito stabilmente da Nereo Rocco nell'undici titolare a dispensare gioco a centrocampo in direzione degli attaccanti, chiamati a pungere in contropiede. Ma tutto ciò non prima di aver superato le severe prove di iniziazione del paròn, giusto per fargli rendere conto in quale ambiente era capitato. La prima di esse si svolge il giorno stesso dell'arrivo in città dell'argentino: dopo aver concluso le visite mediche, Berto Piacentini (il massaggiatore) gli si avvicina indossando un camice bianco con tanto di stetoscopio per fargli credere di essere il medico e gli dice minaccioso: “Clinicamente è tutto a posto. Ma sul serio lei vuole quattro milioni d'ingaggio? Sono troppi soldi!” Beh, se ne può parlare, non saprei... è la risposta sorpresa del nuovo acquisto. Allora Piacentini, terminata la missione, va da Rocco e lo rassicura sull'indole dell'argentino. “Allora xe un bon mulo”, pensa il tecnico triestino. Ma non basta. Una volta superata la prova-Piacentini, è la volta della prova-Rocco, che, per forgiare lo spirito del nuovo arrivato, in spogliatoio lo strapazza ed in campo lo rimprovera spesso con frasi del tipo: “Ciò, muchacho, cossa la speta a ciapar el Vulcania (la nave che da Trieste arrivava in Argentina n.d.r.)?”, oppure dandogli del toco de mona, provocando così le ire del centrocampista, che, se non fosse stato per i suoi compagni di squadra, mandati da Rocco a rincorrerlo, sarebbe sicuramente scappato dal nuovo allenatore con la speranza di non rivederlo mai più. Una parola, mona, della quale il paròn faceva largo uso, il più delle volte in maniera scherzosa, ma che l'argentino Rosa inizialmente fraintendeva: “Essendo io madrelingua spagnolo -ci spiega- credevo che mona fosse il femminile di mono, che nella mia lingua significa scimmia. Quante volte me ne sono andato, stufo che Rocco mi desse della scimmia! Meno male che c'erano i miei compagni, specialmente Mari e Pin, che già conoscevo dai tempi della Sampdoria, a dirmi che in realtà mona non era un insulto cattivo e che non voleva dire quello che pensavo io. Il divertimento? Sì, è vero, quello c'era sempre. E si è rivelato un fattore davvero importante per noi. Era questa l'abilità di Rocco: il clima che aveva creato faceva sì che avessimo sempre fiducia e morale alto. Nel calcio è facile abbattersi. E succede all'improvviso. Magari perdi una partita, il pubblico ti fischia, i giornali ti criticano... Ma proprio grazie al divertimento ed alle risate, nel nostro spogliatoio non c'è mai stata aria pesante. Sì, Rocco è stato un personaggio speciale che oggi sarebbe impossibile trovare in circolazione”.
    Allegri risvegli: Anni '50, trasferte al sud. Si va in treno, preferibilmente di notte, per non sentire il viaggio. Ma il tempo andava comunque passato, possibilmente divertendosi. Leggenda narra che era tradizione che Berto Piacentini, il massaggiatore, superdotato storico, al risveglio andasse da Blason con il classico “alzabandiera” mattutino, e che l'ex libero della Triestina gli infiocchettasse il tutto con un nastrino colorato, per poi accompagnarlo, insieme a tutta la squadra, a dare il risveglio al paròn. Una volta udito il bussare di Piacentini con l'accessorio suddetto, Rocco, fingendosi sgomento ed indignato, dopo aver minacciato il licenziamento al suo fido collaboratore, ordinava ai giocatori di lanciare a quest'ultimo dell'acqua fredda per fargli abbassare la... “cresta”. Così per Piacentini finiva regolarmente a secchiate, tra le risate di tutti. Il repertorio degli scherzi era comunque vasto: uno dei classici era, ad esempio, rubare di notte le scarpe a qualcuno e riempirle di dentifricio, della cui presenza il proprietario si sarebbe accorto solamente la mattina seguente quando ormai vi aveva infilato il piede.
    I due mona: Com'è normale, però, non sempre si poteva andare d'accordo, capitava anche di litigare. Ed una volta accadde a Rocco e Blason. Proprio loro che si conoscevano da anni, essendo stati prima avversari e poi, durante la guerra, compagni di squadra nelle selezioni friulane che affrontavano le squadre dei soldati alleati di stanza in quelle zone per intrattenere e distrarre la popolazione, per poi ritrovarsi, l'uno calciatore e l'altro allenatore, nella Triestina dei miracoli che concluse al secondo posto la Serie A 1947-1948. E proprio alla luce di questa lunga amicizia, Blason era l'unico a dare del tu a Rocco, e viceversa. Ed era anche, forse ancor più di Scagnellato, il suo consigliere più fidato. Una sera però, da Cavalca, confrontandosi sulle sorti della squadra, i due baruffarono aspramente: “Da questo momento, mi devi dare del lei”, disse, in italiano (e ciò è indicativo), Nereo Rocco. “Se anche tu me lo dai”, rispose Blason. Gelo assoluto. Per due settimane non si parlarono. Nemmeno un saluto. Finché un giorno, al termine di un allenamento, la squadra stava effettuando i classici giri della pista del Monti prima di tornare in spogliatoio. Rocco, un po' alla volta, manda tutti a fare la doccia. Tutti tranne Blason. I due si ritrovano fianco a fianco sulla pista del Monti per minuti e minuti, giri e giri, che si fanno sempre più lenti. Entrambi sono stanchi ma nessuno vuole mollare. Finalmente, ad un certo punto, Rocco cede e sentenzia:“ciò, gavemo da far ancora i mona?”. Pace fatta.
    Il richiamo del pallone: Anche il paròn quando vedeva un pallone tornava bambino. D'altra parte, prima di allenare, Rocco era stato una mezz'ala di buon livello: gran parte della sua carriera la trascorse alla Triestina, in Serie A, dal 1929 al 1937, per un totale di ben 232 presenze (arricchite da un notevole bottino di 66 reti), arrivando nel frattempo, il 25 marzo del 1934, ad esordire in Nazionale in occasione di una gara interna contro la Grecia valevole per le qualificazioni al mondiale casalingo in programma tre mesi più tardi. Quella fu la sua unica presenza in azzurro. Una presenza che però gli cambiò la vita: con i regolamenti dell'epoca, per diventare allenatori, bisognava aver giocato in Nazionale almeno una volta. E lui l'aveva fatto. Dal 1937 al 1940 militò poi nel Napoli e successivamente, dal '40 al '42, nel Padova, in Serie B (47 presenze ed 11 gol). Infine, chiuse la carriera in Serie C, militando prima nella squadra militare del 94° Reparto Reggimento Distrettuale di Trieste e nella Libertas Trieste poi. Ecco spiegato perché si aggiungeva spesso e volentieri alle partitelle di fine allenamento della squadra oppure alle arroventate sfide semiclandestine di calcio-tennis improvvisate dai suoi giocatori con in palio, solitamente, una lattina di birra, un panino, o qualcosa del genere. Sfide che non di rado generavano tra i partecipanti diverbi e scontri fisici che lo stesso Rocco era in dovere di sedare. Questo era il rapporto del paròn con i suoi giocatori. Un rapporto di collaborazione e di complicità, schietto e sincero, senza formalità né segreti; basti pensare che era lui il primo a reclamare in spogliatoio la sua parte dei premi partita che capitan Scagnellato distribuiva ogni martedì. Oppure che non utilizzava uno spogliatoio personale: lo divideva (per scelta) con i suoi calciatori, si cambiava e si faceva la doccia insieme a loro. Forse perché non ha mai smesso di sentirsi calciatore, forse perché voleva essere parte attiva di quello strano luogo dove si costruiscono rapporti e si vincono campionati chiamato spogliatoio. Un divertente episodio accadde mercoledì 5 marzo 1958. Il sogno scudetto era ormai svanito per i biancoscudati, Rocco decise perciò di aprire al pubblico la consueta sfida settimanale con i giovani del vivaio allenati da Tansini, storico responsabile del settore giovanile biancoscudato. All'Appiani si presentarono in seicento. Ad un certo punto, Rocco sostituisce Mari per far scendere in campo... Sé stesso! Lo spirito del vecchio calciatore non è mai svanito, perciò il paròn, voglioso di far bella figura, ingaggia un duello personale con Pin -per l'occasione portiere della squadra dei giovani- cercando di trafiggerlo ripetutamente. Ma l'ex estremo difensore della Sampdoria risulta insuperabile. Rocco al termine del match è costretto a rimanere a bocca asciutta e chiede ironicamente ai presenti: “savìo se ghe se portieri liberi sul mercà per sostituire sto qua?”



    Per la stesura di questo articolo ringraziamo Humberto Rosa, preziosa fonte di informazioni.
     
    Top
    .
33 replies since 8/9/2014, 10:44   1716 views
  Share  
.